Uscito il 21 aprile in occasione della Festa della Liberazione dopo essere passato al Bif&st, Flora di Martina De Polo non è soltanto un film sulla Resistenza, nonostante Flora Monti, che di esso è l’anima, sia stata la più giovane staffetta partigiana italiana, a Monterenzio, nell’Appennino bolognese. È un film sul fascismo, in senso lato, e sulla libertà; sulla guerra e sui suoi effetti sui civili, costretti spesso ad abbandonare la propria casa (magari distrutta dalle bombe) e la propria terra per passare in un campo profughi, insieme a migliaia di altre persone; ma soprattutto sul senso civico, sulla responsabilità e sulle scelte che, in certi momenti, bisogna fare. Scelte che vanno oltre se stessi per proiettarsi in un orizzonte più ampio, quello della comunità in cui si è inseriti o, in definitiva, del mondo in cui si vive; in cui tutti noi viviamo.
Flora Monti, che racconta la sua storia immersa in un limbo nero con, alle spalle, dei cubi trasparenti con vecchie foto che rimandano ai suoi ricordi, lo dice all’inizio chiaramente: quando un gruppo di soldati, dopo l’8 settembre, è arrivato nella sua aia spogliandosi delle divise per andare in montagna a combattere il nazifascismo, e qualcuno le ha chiesto di collaborare a quella lotta facendo la staffetta, lei ha deciso di accettare; l’ha deciso lei, dicendosi: “Io bisogna che lo faccia”, detto altrimenti: “Qualcuno deve farlo, e quel qualcuno sarò io”. Che è il concetto che viene ribadito (da lei, oggi ultranovantenne) anche alla fine del film: se i giovani non si muovono, leggi non si mobilitano, il fascismo può ritornare.
Da qui parte la narrazione della storia di questa dodicenne che, dopo aver fatto la staffetta con la 66a brigata Garibaldi Jacchia (senza leggere i messaggi che portava tra i capelli per non parlare nel caso in cui fosse stata “presa” e torturata, come emerge anche dal bel documentario di Chiara Andrich Con i messaggi tra i capelli, 2016, sulle donne della Resistenza) e aver rischiato realmente la cattura, si trova ad essere sfollata dalle truppe americane prima a Firenze e poi a Roma, per scampare alle rappresaglie dei tedeschi. E a Roma, sorpresa, il campo profughi è dentro a Cinecittà; che dopo la liberazione della capitale (4 giugno 1944) ha ospitato in effetti seimila sfollati presi in carico dall’UNRRA, l’Amministrazione delle Nazioni Unite per l'assistenza e la riabilitazione istituita a Washington nel 1943, con lo scopo di sostenere i paesi colpiti più pesantemente dal conflitto mondiale. La seconda parte del film ci porta quindi qui, con Flora che aiuta una signora romana con i bambini e poi il cuoco del campo e infine un sergente che nel suo ufficio ha una radio, dalla quale la ragazza apprende la notizia della fine della guerra.
L’opera prende avvio dalla testimonianza della donna per, come ha dichiarato la regista, “rappresentare metaforicamente la dimensione del ricordo di una bambina, un non-luogo sospeso nel tempo e nello spazio, un vissuto che è al tempo stesso spaventoso per la cruenza delle vicende ma anche pieno di speranza per l’evolversi della storia italiana verso la Liberazione dal regime nazifascista”. Per cui accanto alla Flora di oggi che racconta troviamo una ragazzina, Deina Palmas, che la rappresenta nelle marce dentro al bosco e nella permanenza al campo profughi in ricostruzioni che sembrano filmini d’epoca, dalla grana sporca e dai colori desaturati; troviamo poi degli attori (la compagnia Fraternal di Bologna) che interpretano di volta in volta i soldati che andranno a fare i partigiani, i familiari di Flora, i compagni del campo, con indosso delle maschere della commedia dell’arte, quelle più cupe, a simboleggiare la spersonalizzazione che i conflitti portano con sé ma anche l’inevitabile sfocatura del ricordo che Flora ne conserva, maschere che vengono messe e tolte in momenti significativi, come il passaggio dei membri del gruppo di cui sopra da soldati dell’esercito fascista a partigiani; troviamo delle tecniche di videoarte, in particolare il video mapping sulle pareti dei luoghi che la protagonista attraversa e le proiezioni sui corpi degli attori, che arricchiscono l’opera sul piano estetico contribuendo a darne la coloritura emotiva e, anche, ad attualizzarla, dal momento che alcune delle immagini proiettate riguardano i profughi di oggi, dalla Siria, dall’Ucraina e da altri luoghi “caldi” del mondo; e troviamo infine l’esposizione degli eventi storici fatta dalla stessa Deina Palmas che, in questo caso, parla in macchina su sfondo nero mentre questa carrella avanti o indietro, su di lei. E la musica, sempre. Intensa, avvolgente, penetrante. Di archi. Con una sorpresa finale, il brano che Vinicio Capossela ha donato alla regista per il film, “Staffetta in bicicletta”, messo sui titoli di coda in cui scorrono intanto le immagini della liberazione delle città del Nord Italia, nell’aprile del 1945.
La storia di Flora Monti, tra le più giovani staffette partigiane che a soli 12 anni decide di schierarsi contro il nazifascismo e consegnare segretamente messaggi alle varie cellule della Resistenza sparse nell’Appennino tosco-emiliano. Nel 1944 gli americani la salvano insieme alla sua famiglia e ha così inizio un viaggio che li porterà in quello che allora era il più grande campo profughi d’Italia: Cinecittà.