31 agosto 1997, Diana Spencer entra nell’ascensore dell’hotel Ritz di Parigi con il suo amante Dodi Fayed. Pochi minuti dopo morirà in un incidente nel sottopassaggio del Pont de l’Alma. Due anni prima, nel novembre 1995, aveva rilasciato un’intervista alla BBC capace di mettere fine al suo rapporto con il principe Carlo, scandendo con occhi da gatta: “In questo matrimonio siamo sempre stati in tre, un po’ affollato”.
Tra questi due estremi si sviluppa la storia del biopic del tedesco Oliver Hirschbiegel dedicato a Lady D: dalla rottura con i Windsor allo schianto su una macchina in fuga dai paparazzi. Il film si concentra sulla relazione tra Diana e il chirurgo pachistano Hasnat Khan (interpretato da Naveen Andrews, il Sayid di “Lost” imbolsito e pettinato come Hrundi Bakshi in “Hollywood Party”) e sul suo ritorno alla felicità dopo le costrizioni e le umiliazioni della vita regale.
Nel descrivere la voglia di riconquistarsi una libertà personale in un’esistenza segnata dalla forsennata attenzione mediatica, Hirschbiegel non trova di meglio che riproporre uno sguardo stilisticamente ricalcato sui servizi dei tabloid.
La regia è piatta, definita da campi e controcampi narcotici, preoccupata più della costruzione di un'acconciatura che di un personaggio. La relazione degli amanti è banalmente enfatica e sfiora il ridicolo involontario nelle sue derive glicemiche: “Ne me quitte pas” di Jacques Brel ascoltata languidamente durante una gita di fronte al mare in tempesta, le citazioni floreali di poeti persiani del XIII secolo, la corsa dopo una separazione con la scarpa che si sfila, come in una Cenerentola rovesciata.
Il fervore umanitario di Diana è descritto come un’infatuazione puerile, meccanica, intermezzo caritatevole tra tenere romanticherie. La scelta di estromettere dal racconto le dinamiche conflittuali tra la principessa triste e la famiglia reale – forse per dimostrare un’affezione a Diana che trascendesse il suo ruolo sociale – azzoppa l’interesse per un personaggio ridotto a sfocata figurina.
Non basta certo una spaesata Naomi Watts, impegnata più a riprodurre i tic gestuali che a cercare profondità emotiva, a salvare un’operazione che ha come sommo difetto non il ridurre la vita della People’s Princess a un banale fotoromanzo ma il farlo con lancinante goffagine.
Per la prima volta sul grande schermo gli amori, le passioni e la storia segreta della donna più amata d’Inghilterra: Lady D, la Principessa del Popolo.