Khartoum, agosto 2005. Mentre si avvertono nella capitale del Sudan i primi segni di una crisi nazionale che porterà a scontri violentissimi e a un referendum per la secessione del futuro stato del Sudan del Sud, la musulmana Mouna, benestante che ha dovuto per volontà del marito Akram, falegname di idee molto conservatrici, abbandonare carriera e sogni di cantante (jazz), investe per distrazione il figlio di una coppia di poveri cristiani immigrati dal Sud. Ma non è questa la conseguenza peggiore. Inseguendola per ottenere ragioni sin sulla soglia di casa, il padre (Santino) viene ucciso da una fucilata dell'ignaro marito che lo scambia per un facinoroso o un ladro. La polizia compiacente copre le indagini, lasciando moglie Julia e figlio Daniel nell'angoscia di una misteriosa sparizione. Mouna, tormentata dal senso di colpa, avvicina allora l'inconsapevole vedova e l'aiuta economicamente sino ad assumerla come domestica. Questo sino al 2010, proprio alla vigilia della separazione totale e non indolore tra i due stati: “qui la guerra non finisce mai, domani ricomincerà”.
Ogni tanto il cosiddetto cinema del Terzo Mondo (termine ora decisamente antiquato e improprio, sociologicamente prima che artisticamente) batte ancora forte e sforna opere di buon livello e soprattutto vivace freschezza. Presentato a Un Certain Regard di Cannes 2023 come il primo film alla kermesse di origine sudanese – tra l'altro è doveroso rendersi conto delle difficoltà oggettive di far cinema in una realtà così difficile, povera e devastata – vincendo il Prix de la Libertè, Goodbye Julia è l'opera prima di Mohamed Kordofani, residente in Barheim dove esercita(va) la professione dell'ingegnere aereonautico e realizzando al contempo brevi shorts per passione.
Il dramma che viene distribuito in Italia con il patrocinio di Amnesty International è realizzato nel contesto di una situazione socialmente aspra. Per dirla con le parole riportate del cineasta, evidenziate anche dai dialoghi: il film parla di “razzismo, classismo e le tanti divisioni all'interno della popolazione sudanese”. L'abilità (sorprendente) del cineasta esordiente ma già piuttosto attento alle necessità del cinema commerciale è quella di inserirvi un dramma-thriller discretamente emozionante e strutturato. Certo non mancano le ingenuità e il senso di complessiva precarietà di una produzione che supponiamo non facile, il didascalismo e la devozione al messaggio (a volte capestro delle operazioni, diciamo così, neorealisticheggianti), ma l'attenzione dello spettatore non viene mai meno, sostenuta dall'emotività universale del tema. Si noti comunque la studiata eleganza di alcune situazioni, come ad esempio la successione di inquadrature con la cristiana piangente sulla strada appoggiata a un pilastro e subito dopo l'altra rannicchita su se stessa a letto nella sua muta disperazione. Due esempi di straziata e comune solitudine femminile, sostenuta da due interpreti espressive; e se Sirak Riak (Julia) è una ex universitaria diventata Miss Sud Sudan nel 2014 ed ha già una felice carriera da modella alle spalle, Eiman Yousif (Mona) vanta una ottima carriera teatrale (e si vede), oltre a essere cantante e musicista assai apprezzata. Pur circondate da un resto del cast inevitabilmente meno attrezzato e sciolto davanti alla macchina da presa, sostengono bravamente una trama lancinante di separazione nel senso più ampio, come ricorda il regista, “non solo tra due nazioni un tempo unite, ma anche di mariti, figli, amici e persone care”.
Sudan, 2005. I destini di due donne molto diverse si legano in modo indissolubile dopo un incidente.