Ma dov'è finita l'America dei reduci e dei motel, delle strade infinite che attraversano pianure sterminate e la polka del sabato sera? Il mito della libertà più libertaria, la terra delle opportunità, l'orgoglio della bandiera, l'edonismo provinciale (l'individualismo comunitario) con le sue tribù divise per mestiere, etnia, folklore? Archeologia cinematografica, immaginario gerontocratico?
Earl Stone, reduce di guerra e coltivatore di fiori, passa da una convention all'altra, da un premio a una bevuta con gli amici-colleghi. Fino a quando si ritrova proiettato nella modernità, quella dell'acquisto facile (online), della velocità e dell'astrazione, delle teste piegate sugli smartphone, del poliziesco seriale. Lui, che coltiva un fiore che sboccia e muore nel giro di un giorno (Bella di giorno, bellissimo), all'improvviso si ritrova vecchio, vecchissimo, con la vita appassita, la "giornata" che sta finendo, bruciata in un attimo durato 90 anni. La figlia non gli parla da anni, la moglie non può perdonare il suo egoismo cronico, la smania per quegli onori grotteschi, l'ossessione per la bellezza effimera a cui ha sacrificato ogni cosa.
Clint Eastwood veste i panni di Earl quasi con autoironia, un affetto sornione che è insieme partecipe e disincantato, offrendo il ruolo della figlia alla figlia vera. Viso scolpito dal tempo, corpo ascetico, quasi fantasmatico, costretto a invecchiarsi per sembrare ancora più matto quando fa l'irriducibile viveur, il Robin Hood ruvido e vanitoso, il nonno single testardo, "senza filtri", che non ha paura di nulla (tranne i sentimenti).
Sono passati dieci anni da quando la Ford Gran Torino se n'è andata con Thao (anche quella storia l'aveva scritta Nick Schenk). Ora c'è un pick up F-100 (Ford anche quello), e il solito americano medio, abile manutentore di cose (pessimo, invece, nei rapporti umani), che vede ovunque negri, gialli e mangiatori di fagioli (messicani). In un film che, però, tra le altre cose, dedica una scena notevole al terrore di un automobilista di origine latina alle prese con la polizia, cioè con i "cinque minuti più pericolosi" della sua vita, viste le statistiche e la cronaca americana quotidiana.
Di fatto il "buon" Earl, la simpatica carogna che non puoi non amare, con la sua vitalità contagiosa, per salvare la sua America si ritrova a fare il corriere della droga. Facendo felici - grazie a una cartello della droga messicano - la nipotina che può organizzare la festa di fidanzamento e i reduci che hanno di nuovo la loro sede, salvando la polka e la pista di pattinaggio, pagando le ragazze in motel e lo scintillante pick up Lincoln che prende il posto del vecchio Ford. Ci godiamo Clint-Earl che canta a squarciagola Ain't That a Kick in the Head in una scena destinata a entrare in tutti i best of del genere, lo vediamo mangiarsi il miglior maiale del mondo e palpeggiare amabilmente un paio di sventole, salvo poi predicare a tutti di non diventare come lui. Earl-Clint si fa beffe di ogni moralismo, anche quello degli immorali, vagando e divagando, prendendosi tutto il tempo che non c'è, che non ha più, che non ha mai avuto, anche se forse per un attimo ha pensato davvero di poterlo comprare (non per niente è molto amato da un boss lassista, edonista e perditempo, destinato anche lui a lasciare il posto al futuro).
Il fatto è che il cinema di Eastwood, quando è così diretto e sfacciato, ti lascia disarmato - commosso, felice, euforico, addolorato - e quasi fatichi a capire come e dove è riuscito a convincerti che è tutto vero (il film è ispirato alla vera storia di Leo Sharp), che Earl ha sicuramente ragione e torto marcio, che la famiglia è l'unica cosa che conta e l'amore e il perdono e il tempo e blablabla, che quel pre-finale patetico è meravigliosamente onesto e sincero, che Bradley Cooper è il miglior detective possibile a cui arrendersi per diventare esemplare. Un film del genere ti fa capire la differenza che c'è tra il sentenzioso e il proverbiale: ciò che in qualsiasi altro luogo suonerebbe fasullo, qui riesce ad essere buono e giusto. L'ennesima conferma che esistono registi (quanti?) da cui il cinema sgorga come acqua limpida, che conoscono la vita come pochi altri, che hanno una passione commovente per l'umano, la sua fragilità e fallibilità. Riscattata da quel movimento finale, così semplice da sembrare banale - a proposito di gesti cinematografici sfacciati – che libera e consola.
A Earl Stone, un uomo di circa 90 anni rimasto solo e al verde, viene offerto un lavoro per cui è richiesta la sola abilità di saper guidare un auto. Ciò che Earl non sa è che ha appena accettato di diventare un corriere della droga per un cartello messicano. Nel suo nuovo lavoro è bravo, così bravo che il suo carico diventa di volta in volta più grande e per questo motivo gli viene assegnato un assistente. Questi non è però l’unico a tenere d’occhio Earl: il misterioso nuovo “mulo” della droga è finito anche nel radar dell’efficiente agente della DEA, Colin Bates. E anche se i suoi problemi di natura finanziaria appartengono ormai al passato, i suoi errori esistenziali affiorano e si fanno pesanti nella testa, portandolo a domandarsi se riuscirà a porvi rimedio prima che venga beccato dalla legge o da qualcuno del cartello.