È una sorta di Oblomov il protagonista de L’infinito, primo film da regista di Umberto Contarello, dopo anni di sceneggiature, qualche – sporadica - prova attoriale e un curioso documentario che si apparenta sicuramente a quest’opera, Parole. Operetta per voce e piano (2021). In quel caso, a raccontarsi era lui; qui il protagonista, interpretato da Contarello che oltre a dirigere cosceneggia con l’amico Sorrentino (anche produttore), è autobiografico ma anche no, perché di finzione si tratta; Contarello in questo senso fa cenno a Carrère, ma i riferimenti artistici sono molteplici per un personaggio che si sente invecchiare e che quindi si lascia vivere, nell’indolenza, nell’abbandono, nella casualità del girovagare (per Roma) e degli incontri, anche se in realtà sta riprendendo in mano i fili del suo passato e alcuni di questi riesce anche a dipanarli, alla fine, grazie a un personaggio sorprendente, quello di una suora anziana che ha capito come va il mondo, e che cerca di goderne come può.
Arrivando al nocciolo della questione, il rapporto con la madre che l’ha sempre allontanato da sé, anche quando stava per morire, e, di conseguenza, con la figlia preadolescente che non vuole stare con lui perché è troppo triste, anche se gli vuole bene. Questo personaggio cinico e disilluso, che sembra non credere (più) in niente, infastidito dalla normalità della vita e delle persone, tranne le poche a cui in verità tiene, recupera così nel corso del film alcuni rapporti importanti, quello con i due figli (uno, ventenne, è “spuntato” all’improvviso) e con alcune delle sue donne, e riesce anche nel contempo, sempre senza impegnarsi troppo, a vogare ogni tanto sul Tevere e a lavorare, aiutando una giovane sceneggiatrice a scrivere qualcosa di accettabile, anche se non per forza consequenziale (l’elogio, qui, va alle scene “che non servono a niente”, alla faccia del “turning point” o, per dirla alla Moretti, del momento “what a fuck”) e, comunque, ben distante dalle intenzioni di partenza della ragazza, quelle di un concept di genere aspirazionale, in stile “realismo vitale con sogno americano”. Del resto è slabbrato e frammentato anche questo racconto, che segue letteralmente il protagonista per le vie di una Roma deserta e nei locali che frequenta (l’Harry’s Bar con la cantante di jazz a cui chiede, con un “atto gratuito” di matrice gidiana, o più semplicemente per solitudine, di sposarlo) ma soprattutto nella nuova casa, grande e vuota, in situazioni mosse più dal caso che da una volontà precisa, ma che sono alla fine funzionali (al protagonista, alla narrazione…) e portano in qualche modo ad una crescita: quello che si voleva buttare dalla porta (se stesso, la propria vita, il proprio passato, i propri errori…) rientra dalla finestra dopo essere stato elaborato inconsciamente e quasi casualmente, e spogliato, così, delle “bugie” che conteneva, per diventare verità e libertà interiore. Un po’ quello che fa Zeno Cosini e che dice di aver fatto da solo, al di là della terapia e del dottor S.; e quello che fanno molti personaggi della letteratura otto-novecentesca (Contarello oltre che a Carrère pensava a Cechov e ai Sillabari di Parise ma possiamo pensare anche ad altri testi, senza contare l’ascendenza leopardiana: quello che si respira in quest’opera è anche poesia, poesia per immagini).
Il film è in bianco e nero ma sarebbe più corretto dire che è girato in una scala di grigi, perché sono questi che rendono le sfumature di cui è fatto l’individuo, al di là del fatto che, in alcuni momenti, i quadri sfumano in dissolvenza su un rosso acceso; il senso di poeticità che lo pervade è dato dall’uso della luce abbinato alla staticità delle inquadrature anche se, nel finale, il protagonista si abbandona a un sogno di gioventù (sempre sognando, in realtà) e disegna con il monopattino (il motorino della sua gioventù) un otto, simbolo dell’infinito, su una piazza Navona innevata, e questa è una scena dinamica come lo sono quelle della voga sul Tevere e come lo è, soprattutto, la sequenza del giro in monopattino con la giovane suora con cui viene in contatto, che richiama Sorrentino ma, soprattutto, i giri in Vespa di Moretti, come l’otto e la crisi dello sceneggiatore/ regista richiamano 8 ½ di Fellini. Ma forse il riferimento più calzante, accanto a questo e a Il sol dell’avvenire, anche per il discorso (che sottende l’opera) sul cinema e sul significato del racconto delle storie, è Il ritorno di Casanova di Salvatores, sceneggiato anche da Contarello: stessa disillusione cinica, stesso pessimismo, stesso senso di fallimento esistenziale (sentimentale) e professionale di un uomo che sta invecchiando e anche lì un bianco e nero potente nella parte riguardante il protagonista, che trova nello stesso modo, alla fine, una “salvezza” nel rapporto con una persona, anzi con due.
Il film è dedicato alla memoria di Carlo Mazzacurati.
La vita di uno sceneggiatore di un certo successo crolla come un terremoto dal quale sopravvive a fatica, lasciandolo senza nulla. Tenta di ritrovare un lavoro sebbene la sua carriera sia in irreversibile declino, tenta di riconquistare il rapporto con sua figlia spazzato via dal recente divorzio, tenta di aiutare una giovane sceneggiatrice di talento. Alle volte piange e alle volte sorride delle cose assurde che accadono a chi vaga la vita senza una meta.