Le espansive, calorose famiglie emiliane, protettive come il passato idealizzato cui appartengono, sono ricorrenti nel cinema di Pupi Avati come un refrain di malinconica e tenera nostalgia. Ne L'orto americano vediamo invece le ombre dei parenti morti del giovane protagonista (il sensibile Filippo Scotti, già alter ego di Sorrentino in È stata la mano di Dio), cristallizzate nelle fotografie in bianco e nero da cui non si separa mai e che interroga come Lari o immagini votive. I morti sono la sua vera famiglia: è un primo, cupo indizio della diversità di questo sognatore (con cui l'autore si identifica), che ha avuto problemi di instabilità mentale tali da dover essere rinchiuso in manicomio. Nella Bologna appena liberata dai nazifascisti, rimane folgorato dalla bellezza di un'ausiliaria americana che diventa la sua stilnovistica ossessione tanto da approfittare subito di un'occasione per trasferirsi temporaneamente negli Stati Uniti dove sperare di incontrarla e intanto scrivere il suo nuovo romanzo. Dal quel momento si susseguono alcune incongruenze narrative e coincidenze assurde e bislacche, come se ad Avati non importasse più di tanto la solidità logica del racconto e, d'altra parte, come se evitasse anche di sfruttare il precario equilibrio mentale del protagonista per farci dubitare di ciò che vediamo e udiamo, forse perché dà comunque per scontato che siamo dentro la sua soggettività, dentro i suoi fantasmi e non nel mondo reale.
Arrivato al suo decimo film gotico (tratto dal suo romanzo omonimo, pubblicato nel '23 da Solferino, che, come nel caso dei precedenti, contiene numerosi risvolti in più, oltre ad alcune differenze), l'autore delle Strelle nel fosso, con l'apporto alla sceneggiatura del figlio Tommaso, inanella le situazioni narrative come pretesti per inventare nuove e dense variazioni su un tema già significativo del Signor Diavolo: la sacralità della famiglia che si rivela un turpe inganno, dove i legami di sangue sono avvelenati dal tradimento.
Più che una narrazione abbiamo un succedersi di situazioni e magnifiche apparizioni: una vecchia madre decrepita (la grande Rita Tushingham, strepitosa maschera di laida senilità e rancore) odia una figlia accusandola di non avere effettuato le ricerche necessarie per trovare la sorella, scomparsa ad Argenta, vicino a Ferrara, che tutto induce a pensare sia l'ausiliaria amata dal protagonista; Glauco (l'impressionante Armando De Ceccon, con la sua violenza latente), processato per efferati femminicidi a Ferrara, attende sempre una parola o un gesto dal fratello Emilio (l'ambiguo, sfaccettato Roberto De Francesco), che pure gli sembra così devoto. Le due atroci storie familiari, separate dall'Oceano, sono legate appunto dalla scomparsa della ragazza americana: viene così a stringersi un'imprevedibile connessione tra la magione con l'orto incolto e selvaggio dell'Iowa, proprio accanto alla casa affittata dal protagonista, e il paesaggio del Polesine, dove Avati ci ricorda che qualcuno commerciava coi cadaveri dei soldati americani e inglesi.
Fotografato in un bellissimo, suggestivo bianco e nero da Cesare Bastelli, L'orto americano gioca con le reminiscenze del cinema noir degli anni '40 (Hitchcock e La scala a chiocciola di Siodmak) ma il suo fascino e la sua originalità risiedono soprattutto nelle allucinate e minacciose visioni dei paesaggi del Delta del Po (peccato però che, sul piano sonoro, il dialetto sia stato così trascurato a favore di un italiano convenzionale) e nel senso di inquietante contiguità con il Male, che assume la forma di una sessualità deviata e perversamente criminale, reificata nei macabri vasetti con l'etichetta di Venezia.
Durante il periodo della Liberazione a Bologna, un giovane tormentato con il sogno di diventare scrittore si innamora perdutamente di una infermiera dell’esercito americano che ha visto una sola volta. Un anno dopo si trasferisce nel cuore del Mid West negli Stati Uniti dove si trova a vivere accanto ad un’anziana madre afflitta dalla misteriosa scomparsa della figlia e le loro case sono separate da un inquietante orto abbandonato.