L’invidia per il successo altrui è un sentimento che può spezzare e rovinare per sempre relazioni di amicizia coltivate da anni. È questo il tema di fondo del nuovo film di Daniel Cohen, La felicità degli altri, una classica commedia francese dai toni leggeri che ambisce però a una riflessione più alta e sofisticata.
Due grandi interpreti come Vincent Cassel e Bérénice Bejo si trovano nell’impervia situazione di dover dare spessore e profondità a due personaggi sostanzialmente monodimensionali: Marc, in attesa da anni di una promozione sul lavoro, e Léa, commessa in un negozio d’abbigliamento in procinto di scrivere il suo primo romanzo. Karine e Francis, amici di vecchia data della coppia, appaiono a loro volta come figure eccessivamente stereotipate e tanto approssimativamente tratteggiate da risultare poco incisive. Se Bérénice Bejo riesce tutto sommato a fornire una prova attoriale plausibile nei panni della scrittrice emergente, Vincent Cassel e i due comprimari Florence Foresti e François Damiens sono invece ingabbiati nei loro personaggi caricaturali e con poche prospettive.
Il successo del romanzo di Léa diventa il pretesto per una serie di gag (più o meno riuscite) che svelano progressivamente i dissapori malcelati che serpeggiano tra i protagonisti. Il territorio è grosso modo quello di Chef, l’innocua commedia precedente dello stesso autore con Jean Reno, dove si mescolavano un certo tipo di comicità naïf ad un racconto prevedibile e macchiettistico.
Insomma siamo distanti da Carnage ma si avverte comunque uno scarto rispetto al passato. La piccola rivoluzione de La felicità degli altri risiede infatti nella volontà di provare a esplorare alcuni aspetti più sottili e profondi dell’essere umano, come la necessità di dover prendere in mano la propria vita e agire concretamente per cercare di migliorarla, o come la perdita del rispetto reciproco e l’emergere di sentimenti di prevaricazione sull’altro. Sintomatica in tal senso è la sequenza dell’île flottante che ritorna sia in apertura sia in chiusura, con il dessert tipico della cucina francese (che è anche il titolo della commedia teatrale diretta dallo stesso Cohen da cui è tratto il film) che funziona da metafora del rapporto con l’altro.
Anche se spinto da questi intenti di introspezione e analisi psicologica, la semplicità della messa in scena e la linearità strutturale non permettono a La felicità degli altri di costruirsi una vera identità, né narrativa né visiva. Da un lato c’è la stoica Léa, che prosegue imperterrita per la propria strada senza alcun vero sobbalzo o scuotimento d’animo. Dall’altro c’è Marc, che anche quando riesce a liberarsi dal giogo infernale della gelosia per il successo di Léa non arriva a trovare la statura di una concreta presenza scenica. E poi Karine e Francis che, dal canto loro, sono destinati a ripetere all’infinito le stesse azioni, trasmettendo un opprimente senso di fastidio in perfetta antitesi con l’ilarità che si presume dovrebbero invece suscitare. Limiti soprattutto di una sceneggiatura fin troppo grossolana che rende questi tre personaggi entità vacue e senza direzione, che si muovono senza meta piegate dall’invidia e destinate a ribadire incessantemente soltanto la propria inadeguatezza esistenziale.
Se possiamo anche apprezzare da spettatori una certa complessiva leggerezza del film che lo rende un intrattenimento a suo modo gradevole, risulta più complicato accettarlo come erede di una tradizione longeva e importante come quella della commedia francese, non sempre all’altezza - in tempi recenti - di raccogliere il lascito del passato.
Léa, Marc, Karine e Francis sono amici di vecchia data. Ognuno occupa un posto ben preciso nel gruppo, che va d’amore e d’accordo fino al giorno in cui Léa confessa agli altri che sta scrivendo un romanzo. Il libro ben presto diventerà un best-seller e il successo di Léa scatenerà piccole gelosie e grandi cattiverie.