Silvio Soldini

Le assaggiatrici

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Le assaggiatrici di Silvio Soldini, il film tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino che ha aperto il Bif&st, racchiude in sé tre storie, che si compenetrano per dare vita a un’opera solida, compatta, moderna nella classicità del suo stile e nella lentezza di una narrazione che si snoda a poco a poco, per aprirsi (al cuore, all’emozione, al dramma ma anche alla salvezza, l’unica possibile) nel bellissimo finale.

La prima riguarda il potere. Il periodo considerato è quello della seconda guerra mondiale, più precisamente, per il film - che omette la coda relativa al dopoguerra -, il tempo compreso tra novembre 1943 e novembre 1944, e il luogo è Parcz, il paesino dell’allora Prussia Orientale in cui c’era (poco lontano, nella foresta) il quartier generale - e rifugio - di Hitler, la cosiddetta “tana del lupo”. Siamo quindi nel periodo del nazismo, prima vittorioso e poi, nella seconda parte del film, vicino alla sconfitta, e la vicenda di nazismo parla, trattando il tema delle giovani donne, dieci nel libro e sette nel film, che ogni giorno dovevano mangiare le pietanze preparate per Hitler prima dei suoi pasti, per assicurarsi che non fossero avvelenate; ma i meccanismi che svela sono quelli tipici del potere ed è, in questo caso, un potere che si esercita sulle donne, sul corpo delle donne. Anche al di là, appunto, del nazismo. In un modo paradossale, fornendo cibo a delle affamate mettendole costantemente a rischio della vita, come fosse una roulette russa. Non a caso Postorino apre il suo testo con due versi di Brecht: «Nel mondo l’uomo è vivo solo a un patto: / se può scordar che a guisa d’uomo è fatto».

Il secondo filo narrativo riguarda le donne, queste donne: inizialmente gruppo eterogeneo, con una (nel film) nazista convinta, un’altra che si scoprirà essere ebrea, una (la protagonista) che viene dalla città ed è chiamata dispregiativamente “la berlinese”, sposate, vedove o nubili ma comunque senza presenze maschili al fianco, perché gli uomini sono al fronte; man mano gruppo compatto, sia a causa degli accadimenti esterni (nel luglio del ’44 c’è l’attentato al Führer e loro sono costrette a rimanere nel luogo in cui assaggiano i suoi pasti; nel novembre dello stesso anno si comincia a sgomberare il sito e questo porta ai fatti che si vedono nel finale) sia perché inevitabilmente scatta una solidarietà, prettamente femminile, che diventa in alcuni casi anche amicizia, e aiuto. Donne dal corpo vulnerabile (malesseri, svenimenti, intossicazioni, gravidanze e interruzioni delle stesse) ma che hanno al contempo, proprio nel corpo, la loro arma più forte; donne di cui Soldini si è occupato spesso, nelle protagoniste di quasi tutto il suo cinema e nei rapporti che intessevano tra loro e nel lavoro precedente a questo, il documentario Un altro domani (2023), che si occupava di violenza sulle donne. 

E poi c’è la storia di un amore, anzi di due amori: quello tra Rosa, la protagonista, e il marito impegnato sul fronte russo e poi dato per disperso (marito che nel libro lei ritroverà a Berlino, per poi perderlo sia per la forza della vita, che ha previsto per loro altre strade, sia per quella degli eventi che non possono non lasciare traccia sui vissuti, storici o personali che siano) e quello, nella seconda parte dell’opera, tra la protagonista e un tenente delle SS, Albert Ziegler. Un amore assurdo in quella situazione (come altri che Soldini ha raccontato), nato dal bisogno disperato di calore, di accoglienza, di contatto («È anche un film sugli istinti e le pulsioni umane, sulla tensione tra i bisogni primari di ognuno di noi e quelli secondari, condizionati dall’ambiente, dalla cultura e dal potere», ha dichiarato Soldini), che per Rosa, in particolare, nasce dal bisogno (di tutte loro, donne in quel momento sole e sofferenti) «di essere desiderate, perché il desiderio degli uomini ti fa esistere di più», come scrive Postorino; e per entrambi, e questo è l’aspetto più interessante, dal bisogno di contattare dentro di sé una parte pura, incontaminata, scevra dalle storture del mondo esterno, per poter dire, e dirsi, che nel mondo è ancora possibile, tra persone, volersi bene; provare dei sentimenti. Questo è evidente soprattutto nella figura di Albert, che decide di mettere Rosa in salvo, nonostante tutto, “buttandola” sul treno che la riporterà a Berlino, perché lei gli ha tirato fuori il meglio, gli ha tirato fuori l’umanità. Il che fa riflettere sul “bene”: cosa significa voler bene, cosa significa amare, come si può amare in una situazione estrema; come si può rimanere umani

  

Per cui se c’è la guerra, questa viene tenuta fuori, sullo sfondo; se ne sentono e vedono degli echi nei riflessi che ha sulla vita dei protagonisti, nonostante sia la guerra stessa (o, se vogliamo, la follia dell’uomo) a generare l’orrore che il film mostra. Il messaggio quindi è universale, e molto attuale.

Silvio Soldini, che percorre strade diverse da un film all’altro, muovendosi in ogni caso tra intimismo e attenzione alla realtà, e tra sorriso e dramma, qui sperimenta realizzando il suo primo film in costume, tratto da un romanzo com’era stato per Brucio nel vento (da Ieri di Ágota Kristóf, un’altra donna…), partendo da una sceneggiatura già abbozzata, da Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia, alla quale ha lavorato con Doriana Leondeff e Lucio Ricca, chiedendo in partenza di girare in tedesco e con attori tedeschi (ed è un vero peccato, che il film sia uscito nelle sale nella versione doppiata). Il cast, a partire dagli attori (Elisa Schlott, Alma Hasun e Max Riemelt, ma anche Boris Aljinovic), è eccezionale: le musiche, usate per introdurre le situazioni sugli stacchi neri che scandiscono l’opera, sono di Mauro Pagani; montaggio, scenografia e trucco sono gestiti da collaboratori abituali del regista (Cristiani e Garini, Bizzarri, Sciaroni) mentre la fotografia è dello “splendido ottantenne” Renato Berta, che ha utilizzato i toni del grigio e dell’azzurro (un po’ come ha fatto Kričman per Vermiglio), nelle loro sfumature e variazioni, contrappuntandoli con il rosso, per creare un mondo chiuso e originale. Il film si svolge in un tempo, lo dicevamo, ma anche in un luogo che, nei pochi esterni, è freddo e innevato oppure tiepido ma sobrio, con alberi mossi dal vento che si intravedono e un laghetto in cui immergersi, nell’unico momento sereno che si vede vivere alla protagonista.


          

 

Le assaggiatrici
Italia, Belgio, Svizzera, 2025, 123'
Titolo originale:
id.
Regia:
Silvio Soldini
Sceneggiatura:
Doriana Leondeff, Silvio Soldini, Cristina Comencini, Giulia Calenda, Ilaria Macchia, Lucio Ricca
Fotografia:
Renato Berta
Montaggio:
Carlotta Cristiani
Cast:
Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Emma Falck, Olga von Luckwald, Boris Aljinovic, Marco Boriero, Kriemhild Hamann, Nicolo Pasetti, Thea Rasche
Produzione:
Lumière & Co., Tarantula, Tellfilm, Vision Distribution
Distribuzione:
Vision Distribution

Sette donne sono costrette per anni ad assaggiare il cibo destinato a Hitler per verificare che non sia avvelenato. Tra loro si intrecciano rapporti che implicano solidarietà e tradimento.

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