Un gruppo di donne in strada, di prima mattina, attende; volti e dettagli di donne senza dimora, donne di strada. Dalla strada quattro assistenti sociali responsabili di un centro di assistenza femminile, vogliono salvarle. Così si apre Le invisibili, film immerso, fin da subito, tra le classi meno agiate della Francia contemporanea. La strada è tanto estetica e concreta (l’effettivo marciapiede e i vestiti sciupati), quanto interiore e caratteriale (il linguaggio scurrile e le difficoltà relazionali). Le quattro volontarie, altrettanto invisibili, lottano per la dignità di tutte loro che spesso sembra negata anche dal sistema stesso che tende loro la mano.
L’impegno sociale è centrale in tutta la filmografia del regista Louis-Julien Petit, dalla crisi occupazionale di Discount, allo sfruttamento del lavoro di Carole Matthieu. In questo suo terzo film lo declina in commedia attraverso un processo di popolarizzazione che mira a raccontare la possibilità di rendere visibili quelle vite invisibili, sottolineando un messaggio oggi molto a cuore al cinema francese. Infatti, come Olivier Ayache-Vidal ha recentemente messo in atto con Il professore cambia scuola, anche Louis-Julien Petit si è impegnato a non limitare il suo lavoro a una semplice messa in scena popolare ma ha esplicitatato la sua volontà di agire sul sociale. Immergendosi nel mondo che racconta, Petit ha potuto lavorare con un gran numero di attrici non professioniste che hanno vissuto direttamente l’esperienza dei personaggi interpretati. A queste sono stati affidati soprannomi fittizi (Lady D, Édith Piaf, Brigitte Macron, Beyoncé…) non solo per preservare la loro privacy, ma anche per mettere in atto un processo creativo di lavoro personale, tutelando persone e personaggi; lo restituisce la sequenza in cui le donne “affrontano” la propria immagine, proiettata sui loro corpi: piangono e ridono, ricordano e sognano, recitano e vivono.
Ricorrente nell’intreccio è anche l’idea di obsolescenza. Quella "programmata” che caratterizza gli elettrodomestici (costruiti esattamente per funzionare solo per un determinato tempo) che le protagoniste riparano e riutilizzano, ma anche quella che caratterizza loro stesse, ritenute irrecuperabili. Questa obsolescenza viene combattuta grazie all’aiuto delle quattro assistenti sociali, un aiuto reciproco, un incontro tra personalità differenti attraverso il quale aspirare a riconquistare la dignità perduta o, meglio, pretendere una dignità restituita.
Le invisibili prende forma attraverso una regia che pare scostante. Sequenze fortemente estetizzate, delicate e simmetriche, si alternano a camere a mano e movimenti bruschi. Una regia pulita e una regia sporca, quasi come l’alternarsi della dignità e della mancanza di essa, della visibilità e dell’invisibilità. La parte più "grezza" della messa in scena si ritrova nelle ricorrenti sequenze di dibattito interno al gruppo di donne. Questi scambi avvengono tra un singolo e il gruppo, un dialogo “uno a tanti” e viceversa, un tipo di situazione che ricorda un altro cinema francese fortemente improntato al sociale, similmente impegnato ma totalmente opposto per stile. Nell’ultimo film di Stéphane Brizé, per esempio, la regia brusca e sporca è funzionale a immergere lo spettatore nei lunghi dibattiti, tra gli stessi operai, a restituire la loro rabbia e la loro determinazione. Qui invece l'obiettivo è mettere in scena la speranza delle donne ribelli che sono il perno del racconto e lo sguardo del regista, sempre rivolto verso gli ultimi, assume toni e coloriture del tutto differenti.
Protagoniste del film sono quattro assistenti sociali dell’Envol, un centro diurno che fornisce assistenza alle donne senza fissa dimora. Quando il Comune decide di chiuderlo, si lanciano in una missione impossibile: dedicare gli ultimi mesi a trovare un lavoro al variopinto gruppo delle loro assistite, abituate a vivere in strada. Violando ogni regola e incappando in una serie di equivoci, riusciranno infine a dimostrare che la solidarietà al femminile può fare miracoli.