C'è qualcosa di sbagliato in Ma Rainey's Black Bottom. O meglio, c'è forse qualcosa di troppo giusto, troppo prevedibilmente giusto, lineare, inevitabile: ogni pezzo della storia va a incastrarsi al proprio posto, in quello che sappiamo debba essere il suo posto, e nemmeno i gesti più traumatici riescono a scalfirne la prevedibilità drammatica.
Tratto dal secondo "capitolo" del Ciclo di Pittsburg del drammaturgo afroamericano Auguste Wilson, Ma Rainey's Black Bottom riprende fedelmente il testo teatrale, un atto unico ambientato nel 1927, in uno studio di registrazione di Chicago dove la band della "madre del blues" deve incidere un nuovo album.
A parte l'incipit, con un gruppo di afroamericani che corre in un bosco notturno per raggiungere poi la baracca di legno nella quale Ma Rainey si esibisce, e le immagini finali, dove è una band di soli bianchi a registare la canzone scritta dal giovane trombettista Levee, il film di George C. Wolfe mantiene l'unità di luogo e di tempo del dramma di Wilson: chiusi là dentro insieme al produttore e al manager della band, i quattro musicisti, la star matronale e tirannica, la sua amichetta, il nipote che Ma pretende di far partecipare all'incisione come "voce narrante" nonostante sia balbuziente fanno esplodere i conflitti sotterranei o espliciti, la furiosa, ambiziosa vitalità (e una nuova concezione musicale) della giovinezza contro la l'indomita prepotenza (e l'amarissima consapevolezza del suo ruolo in quanto black) di una leggenda vivente, la fede contro l'assenza di Dio, lo stufato contro gli avanzi (sono il soggetto del monologo più bello, pronunciato dal pianista Toledo).
E, per tutti, le memorie del razzismo, delle violenze subite in prima persona o narrate da altri. Dialoghi serrati, monologhi intensi, un cast esemplare dominato dall'energia nervosa e scattante, quasi asciugata dalla rabbiosa voglia di emergere, di Chadwick Boseman (all'ultima interpretazione prima di morire) e dalla straripante potenza di Viola Davis, fiammeggiante e compressa, sotto la quale traspare una lucida vulnerabilità di razza. «Non gliene frega niente di me. Loro vogliono solo la mia voce», dice a un certo punto Ma dei bianchi. E ogni tanto la sua voce si alza nel blues, in quella canzone che fu la sua "firma" musicale e che da il titolo all'opera. Eccoli, tutti gli elementi per la costruzione di una vera e propria jam session cinematografica.
Ma qualcosa non funziona: il film procede a scarti e a scatti, in una sorta di scolastico allineamento delle pièces de résistance di ogni personaggio. Non si tratta di teatro filmato, anche se George C. Wolfe è soprattutto un regista teatrale: anzi, a volte la macchina da presa si muove fin troppo, come in certi dialoghi, in un continuo palleggio di campo-controcampo. Forse si tratta del suo contrario, di un eccesso di tensione "realistica", di una perdita di astrazione teatrale, grazie alla quale quel non luogo (il palcoscenico) diventa tutti i luoghi possibili. E la parola diventa un universo immaginifico, oltre che verbale. Qui c'è troppa carne vera, e vita vera, che cozza contro le pareti di quel seminterrato; e tutto risuona un po' troppo "dato".
A differenza di quello che accade in One Night in Miami di Regina King, che emana un destabilizzante senso di claustrofobia e di assillante ricerca, in Ma Rainey's Black Bottom parole e ruoli e scelte sono già acclarati: i personaggi che usciranno da lì saranno, più o meno, uguali a prima. Forse, quello che manca davvero al film è la traccia sotterranea, quell'idea (in questo caso, idea di cinema) che permette a una jam session di concretizzare l'armonia nell'apparente confusione e a un film sul jazz a tratti molto claustrofobico come Kansas City di Altman di chiudersi con una battuta all'apparenza banale ma ricchissima di significato come «Oggi non ho votato».
Chicago, 1927. La cantante soul Ma Rainey, la leggendaria "Mother of the blues", durante una sessione di registrazione entra in conflitto con il suo produttore e manager per il controllo della sua musica. Nella stessa saletta, ad assistere all'alterco, c'è anche la band, tra cui il trombettista Levee, che spera un giorno di lasciare il segno nel mondo della musica. Il piccolo studio di registrazione diventerà lo scenario di uno scambio di idee e di storie, che cambieranno per sempre la vita dei presenti.