Sono passati quindici anni da Zero a dieci, ma poco o nulla sembra essere cambiato nel modo di fare cinema di Luciano Ligabue. In Made in Italy ritorna lo stesso milieu provinciale emiliano, la stessa dimensione corale del racconto, lo stesso gruppo di amici, portavoce di una generazione in crisi; e pure lo stesso espediente di un lutto necessario per determinare un cambio di rotta a uno status quo apparentemente immutabile.
C’è però un aspetto che non si riscontrava né Da zero a dieci né tantomeno in Radiofreccia, a oggi il film più riuscito ed equilibrato del Liga. Vale a dire il sottotesto di critica sociale che si rivolge alla situazione complessa e contraddittoria in cui versa attualmente il nostro Paese.
Riko, il protagonista del film interpretato da Stefano Accorsi, si fa portavoce di un sentimento particolarmente comune tra gli italiani. Da una parte c’è il malcontento verso una società in cui dovremmo sentirci accolti e ovviamente verso la classe politica – dirigente e non – da cui dovremmo sentirci rappresentati; dall’altra c’è un amore incondizionato verso una terra di cui non si riesce a fare a meno e che nel bene e nel male regala un’identità.
È qui che trova una sua ragion d’essere il microcosmo personale di Riko, a cui il protagonista si aggrappa per paura di veder svanire anche quelle piccole, vaghe certezze che gli permettono di andare avanti: gli amici con cui è cresciuto, la città che gli ha dato i natali, il lavoro precario che detesta ma a cui non sa rinunciare, una moglie o una compagna con cui ha smesso di comunicare, a costo di anteporre l’apatia dei sentimenti a un confronto diretto che potrebbe produrre un cambiamento.
Non che non sia condivisibile il discorso di Ligabue, che qui riprende alcuni spunti e alcune canzoni del suo omonimo album del 2016: non è assurdo pensare che molti di noi abbiano un approccio simile, e inevitabile, alla vita. Ciò che è difficile da mandare giù è il modo in cui il regista, sceneggiatore e musicista ce lo dice, facendo leva su cliché che fanno, davvero, sembrare l’Italia quella dei “very normal people” post EXPO 2015 incarnati dall’insopportabile e retorico slogan veicolato da Radio RTL 102.5.
Passi l’amore che Ligabue nutre per l’Italia, così come la vitalità e l’entusiasmo sprigionati dal film, tipici della sua personalità. Il problema in Made in Italy sono piuttosto i personaggi, sempre in bilico tra il lezioso e l’esasperazione, alcuni snodi narrativi o, ancora, i risvolti grotteschi prodotti dalla depressione in cui piomba Riko dopo essere stato licenziato. E c’è un altro modo per definire la visita turistica notturna di Riko & co. a bordo delle bighe elettriche con successiva manifestazione di protesta, se non patetica? Non manca nemmeno il pranzo a casa del collega indiano perfettamente integrato di Riko a insegnarci come ciò che un normale italiano è fonte di insofferenza e di lamenti per altri è il raggiungimento di un traguardo.
Made in Italy rispecchia esattamente ciò che è diventato la musica del Liga: onciliante, ripetitiva, moralista. Come il PD di Renzi o una puntata di Che tempo che fa. Dov’è finito il rock graffiante e nostalgico di una volta?
Riko, un uomo buono e onesto, è alle prese con una vita in cui tutto sembra essere diventato improvvisamente precario: il lavoro, il futuro, i sentimenti.
Ma se a volte rialzarsi non è facile, Riko ha scelto di non darla vinta al tempo che corre: c’è un matrimonio da difendere e riconquistare, ci sono amici su cui contare e una casa da non vendere. Riko decide di mettersi in gioco e prendere finalmente in mano il suo destino.