Primavera, l’esordio alla regia cinematografica di finzione (dopo il film-opera Rigoletto al Circo Massimo e il divertissement pucciniano Gianni Schicchi, entrambi del 2021) del pluripremiato regista teatrale Damiano Michieletto, è un film che ti prende e non ti molla più. Ritmo, suspense, intensità crescente: tutto, dall’incipit metaforico sull’annegamento dei gattini al finale aperto e liberatorio, per quanto sofferto e inaspettato, è interessante e coinvolgente, a partire dal fatto che si tratta di un’opera colta e raffinata, che racconta della musica del Settecento veneziano, degli ospedali di carità per orfani (nella fattispecie quello della Pietà a Venezia, sede, al tempo, di una rinomata orchestra), di Antonio Vivaldi e della composizione della sua musica, di amore desiderio energia vita e poi di denaro e di classi sociali, in modo semplice e “popolare”, senza essere scontata o didascalica ma parlando allo spettatore, e immergendolo nel clima di quel periodo.

La vicenda, che può ricordare quella di Gloria! di Margherita Vicario (che ha concepito il suo film pensando proprio alle orfane “vivaldiane” per poi approdare a un’opera differente sia nella storia, collocata tra l’altro nel 1800, sia soprattutto nello spirito), è ambientata appunto all’Ospedale della Pietà, che avviava gli orfani a un mestiere mentre educava le orfane alla musica, a meno che non si facessero suore o non trovassero qualcuno che le voleva sposare, ed è collocata temporalmente nel 1716, l’anno in cui Vivaldi fu richiamato alla Pietà come maestro d’orchestra dopo che questa sembrava essere stata surclassata dai Derelitti (a Venezia c’erano quattro orfanotrofi di questo tipo, istituiti dalla Repubblica quindi laici, anche se spesso diretti da religiosi); la sua protagonista è Cecilia, violinista incredibilmente dotata e tormentata dal desiderio di ritrovare la madre, a cui scrive di nascosto lunghe lettere (lo spunto narrativo è il romanzo di Tiziano Scarpa Stabat Mater, 2008, premio Strega nel 2009). Questa ragazza, interpretata da Tecla Insolia come la Modesta de L’arte della gioia che l’ha fatta conoscere, orfana anch’essa, di carattere diverso ma comunque indomito nella sua disperata ansia di vita, viene nominata da Vivaldi primo violino dell’ensemble dell’istituto, che esegue molte delle sue composizioni del tempo, da Le dodici sonate a tre dell’Op.1 (con la celebre Follia) alla Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie (RV 644), oratorio creato in occasione della vittoria della Repubblica nella settima guerra turco-veneziana (1714-1718). Sarà proprio questa guerra a segnare il destino di Cecilia perché il suo generale in campo (un nobile veneziano che rappresenta, qui, Von der Schulenburg), una volta riconquistata Corfù (1716), torna a Venezia per sposare la ragazza, trovando una situazione diversa da quella che si aspettava e mettendo in moto gli avvenimenti che porteranno al finale che si diceva. In cui Cecilia riesce, sì, ad affermare se stessa dandosi la possibilità di cambiare il proprio destino, ma paga per questo un prezzo altissimo. E deve lasciare il suo maestro, a cui la lega un’intesa che è, più che amorosa, spirituale e artistica, perché entrambi, a fronte di un’attrazione sottile che è desiderio ma desiderio di vita piena, e ricca, percepiscono la musica come passione, sostanza, fisicità quasi. Combattività. Un modo di stare nella vita prima che nell’arte e nella creazione artistica, proprio di due anime inquiete e ribelli che sono tali perché provate da un dolore grande (per Vivaldi, visto qui nella sua dimensione “umana”, la forte asma che lo affaticava costantemente, tanto che non poteva celebrare messa pur essendo un prete, e gli ordini presi per obbligo, anzi per voto materno, in relazione alla malattia; oltre che la precarietà materiale in cui si è dibattuto per gran parte della sua vita, e che è sfociata nella morte in miseria, a Vienna, con sepoltura in una fossa comune, e nella riscoperta tardiva delle sue opere, avvenuta solo a inizio Novecento).

Il tempo di Vivaldi alla Pietà è anche quello delle Quattro stagioni, che escono nel 1725 in Il cimento dell’armonia e dell’invenzione, Opus 8, ma giustamente Michieletto non incentra il film sulla composizione più nota del musicista (ascoltiamo la Primavera solo nei titoli di coda); anzi alle musiche di Vivaldi, che tiene come diegetiche, affianca quelle di Fabio Massimo Capogrosso per la parte extradiegetica e sfrutta al meglio tutti i reparti tecnici, dalla scenografia ai costumi, per raccontare una Venezia non cartolinesca né sgargiante, con una fotografia che rimane sui toni freddi per rendere, anche visivamente, un contesto sociale duro, in cui la vita delle ragazze come Cecilia dipendeva da fattori fortuiti (una madre che tornava a prenderle dopo averle abbandonate infanti, un nobile che decideva di sposare proprio loro portandole fuori dall’istituto o, come nel caso di Cecilia, una priora comprensiva e alfine complice) ma soprattutto dal denaro, da quanto potevano valere; cioè, in questo caso, da quanto erano brave con il violino. Forse la cosa che rimane più impressa del film, oltre alla musica sublime e al rapporto così ben delineato tra i due protagonisti, è il peso delle gerarchie sociali e soprattutto del denaro, perché è su di esso che si modula la vita dell’istituto, che cerca di primeggiare nella musica per avere fondi dal patriziato locale, oltre che per compiacere (allo stesso scopo) i sovrani del tempo (il Doge dopo la vittoria a Corfù, il re di Danimarca in visita a Venezia in un altro momento del film).
L’altro elemento notevole, in un’opera perfettamente orchestrata in tutti i suoi aspetti (alla sceneggiatura c’è Ludovica Rampoldi, autrice tra l’altro de Il maestro con Andrea Di Stefano e ora regista del convincente Breve storia d’amore) e incredibilmente matura per un esordiente, sia pure sui generis come Michieletto, è quello attoriale: Tecla Insolia è come al solito bravissima; Vivaldi è interpretato da un Michele Riondino sempre in parte, nell’equilibrio precario che caratterizza il suo personaggio, tra sete di vita piena, che manifesta nella musica che compone, e la fatica provocata dalla malattia che mina il suo fisico; Andrea Pennacchi e Fabrizia Sacchi offrono corpo e anima al governatore dell’orfanotrofio e alla sua priora, colei che segue da vicino le ragazze; e i camei di Valentina Bellè e Stefano Accorsi arricchiscono efficacemente il tutto.
Primi del Settecento. L'Ospedale della Pietà è il più grande orfanotrofio di Venezia, ma è anche un'istituzione che avvia le orfane più brillanti allo studio della musica. La sua orchestra è una delle più apprezzate al mondo. Cecilia ha vent'anni, vive da sempre alla Pietà ed è una straordinaria violinista. L'arte ha dischiuso la sua mente ma non le porte dell'orfanotrofio; può esibirsi solo lì dentro, per ricchi mecenati. Questo fino a che un vento di primavera scuote improvvisamente la sua vita. Tutto cambia con l'arrivo del nuovo insegnante di violino. Il suo nome è Antonio Vivaldi.