Malmkrog è un film che interroga la Storia, la morale, la natura dell’uomo, un film di pensiero e sul pensiero, che crede ancora nella ragione come strumento conoscitivo del mondo fisico e metafisico. Malmkrog è un film per cui la Storia è materia viva disposta in progressione, e altrettanto viva è la nostra capacità di ordinarne il flusso in forme speculative utili, urgenti; un film che meglio di molti altri ci ricorda la necessità di storicizzare determinate teorie e modalità di pensiero – quelle più ironiche, beffarde, sfiduciate e convinte che la rottura del velo di Maya renda ogni cosa relativa, frutto di un discorso, che il reale sia solo interpretazione soggettiva di dinamiche socialmente costruite, insomma le derive del pensiero postmoderno – affinché l’immagine possa tornare a dirci di noi e del mondo.
Per questo Malmkrog va letto all'interno di questo passaggio, sofferto e tuttora in corso, che vede il paradigma postmoderno evolvere verso le nuove strutture del contemporaneo, sede di forze inedite e altre ritrovate, più o meno vicine al progetto interrotto della modernità. Perché Malmkrog è di questo che ci parla, del bisogno di tornare a credere, in forme nuove certo, e consapevoli in senso profondo e critico, che il pensiero conti e possa in qualche modo plasmare, correggere, migliorare il mondo.
Malmkrog, ancora, è un film di aut… aut… piuttosto che di et… et… La prima è la locuzione dell’alternativa, della scelta necessaria, dell’importanza e capacità di prendere posizione consci che un aspetto della realtà possa, e a volte debba, escluderne altri, che non tutto del pensiero e del reale sia sostituibile, espandibile, privo di gerarchia; la seconda invece è il segno inclusivo dell’ibridazione, la possibilità acquisita di un pensiero nuovo capace di accogliere privo di ingegnerie scalari il flusso della contaminazione. Riprendendo Robert Venturi, architetto statunitense e tra i principali pensatori del postmoderno – che proprio nel dominio del sia… sia… sul binarismo dell’o… o… vede un tratto congenito, prezioso e vitale dell’era postmoderna – Gianni Canova chiama in causa et & aut sottolineando come la crisi della modernità a favore di un tempo postmoderno sia caratterizzata dall’affermarsi di una nuova “struttura del sentire” nella quale non trovano più posto «tesi e antitesi, opposizioni ed esclusioni, ma inclusione, convivenza, contaminazione» (L’alieno e il pipistrello, 2000). In un saggio dedicato al concetto spaziale di eterotopia Michel Foucault afferma che «viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso» (Spazi altri. Il luogo delle eterotopie, 2001). Modi simili di descrivere la stessa logica culturale, un paradigma successivo al moderno che agisce su scala globale, livella la verticalità dello spazio-tempo e frammenta corpi e idee mescolando alto e basso per aprire a nuovi ordini di pensiero, all’alterità, al particolare.
Messa così, la modalità dell’et… et… non sembra poi questo gran danno, anzi: il Novecento ha ben dimostrato i limiti del razionalismo, della gerarchia e della fiducia cieca nelle categorie universali (pensiamo alla Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer) e simili assolutismi andavano ovviamente messi in discussione; altrettanto urgente era affermare quanto della nostra conoscenza fosse basato sul privilegio, sull’eurocentrismo e sull’illusione della ragione come infallibile forgia del mondo.
Ma allora, dire che Malmkrog sia un film che guarda indietro, all’alternativa binaria dell’aut… aut…, alla necessità del confronto aspro, dialettico, significa accusare Cristi Puiu di conservatorismo? di nostalgia reminiscente? di perversa cecità storica? L’altra faccia della medaglia del paradigma postmoderno – dopo la preziosa messa in discussione di dogmi e certezze, e un generale discredito di tutto ciò che passava prima per naturale, normale, ovvio, e che invece è socialmente costruito e in quanto tale mediato, artefatto, relativo – è stata una crescente negligenza nei confronti della Storia e della realtà, un distacco cinico e sornione che ha depauperato e messo in crisi i concetti di impegno e responsabilità, svuotati di significato in quanto interpretati come azioni meramente illusorie, ingenue reminiscenze di sistemi valoriali posticci. E questa deriva oggi è al centro di dibattiti aspri e variegati che si interrogano sulla possibilità e necessità di storicizzare il postmoderno; a riguardo si parla di new realism, post-postmodernism e altro ancora, il dibattito non è sintetizzabile ma credo sia utile tracciarne i contorni e porlo a base del ragionamento perché è da questa temperie culturale che emerge quella che Malavasi descrive come una ritrovata «fiducia nella ragione e nella conoscenza umane in quanto strumenti efficaci di descrizione del mondo, grazie ai quali tornare a distinguere, per esempio, tra ciò che è vero e ciò che non lo è, tra fatti e interpretazioni, tra significati e letture» (Postmoderno e cinema, 2017).
Malmkrog (come molto altro di questa new wave rumena, a partire dal cinema etico di Mungiu) mi sembra il film che meglio di molti descrive cosa significhi – e perché sia necessario – fare un cinema che “rimetta in moto i meccanismi della Storia”, attraverso un’immagine pensata, densa, disposta a farsi di nuovo carico del reale e della responsabilità di raccontarlo questo reale, in termini anzitutto morali. Il che non significa accontentarsi di un cinema superficialmente realista, nel senso aderente alla superficie di ciò che vediamo e tocchiamo e intento a trarre senso da questa vicinanza, e neanche favorire l’aut… aut… come ritorno al diktat modernista della gerarchia intellettuale e del canone, dell’Arte e dell’arte. Guardare da qui Malmkrog significa piuttosto riconoscere a questo cinema la capacità – apparentemente persa nella sbandata postmoderna e per l’appunto ritrovata, riconquistata, per quanto all’interno di una temperie culturale pienamente in fieri – di costituire forme di realtà che attraverso la Storia e il linguaggio parlano di noi e a noi oltre le spire della costruzione sociale, del relativismo esacerbato per cui, data la crisi dei grandi racconti e lo svelamento che morale e giudizio sono discorsi costruiti socialmente, nulla sia reale e tutto lecito. Attraverso strategie formali diverse, il cinema di Puiu, Mungiu e Jude ci chiede di credere ancora – nonostante la “scoperta” che quel che ci circonda sia frutto di discorsi, convenzioni, contratti sociali – nelle gerarchie di pensiero e morale e nelle possibilità escavatrici dell’immagine, che tramite il dialogo e il pensiero mediato può ancora ragionare su di esse, questionandole, ribaltandole, confrontandole ma dando per assodato che il reale e le sue urgenze esistono, e che il cinema è un modo potente per creare un rapporto denso con esse.
Del resto è Puiu stesso a descrivere il suo film come «un interrogatorio sul cinema e sulla memoria», un atto di testimonianza. Malmkrog racconta di una giornata trascorsa assieme da alcuni nobili e politici russi, e di quei sei personaggi noi siamo il settimo ospite, e tutto il film si dispone sullo schermo come fosse il frutto del nostro sguardo, della nostra soggettiva, e noi fossimo dei testimoni dalla memoria confusa, i cui ricordi si mescolano per ordine e qualità nel mazzo del racconto. Da qui la confusione degli elementi scenici e temporali, i rapporti poco chiari tra i personaggi, i legami vaghi di potere e parentela, perché a restare marchiato a fuoco nella memoria non sono i fatti ma il processo dialogico, il ragionamento, il dialogo.Che Puiu ricava dall’opera più famosa del pensatore cristiano russo Vladimir Solovyov – adattandone l’opera con tagli, cambi di sesso dei personaggi, rilocazione in Transilvania piuttosto che sulle Alpi francesi – per parlare così del contemporaneo, di ciò che arde il presente perché attuale o eterno, come i conflitti geopolitici del continente europeo o le attitudini essenziali alla violenza.
Di questo e altro parlano Nikolai, Ingrida, Olga, Edouard e Madeleine, per duecento lunghi minuti in cui Puiu dispone punti macchina e tempi di montaggio come una sinfonia, dove qui accelera e qui rallenta, qui impone il piano sequenza più suntuoso e qui lavora sull’alternanza veloce dei piani ravvicinati. Sempre posizionando macchina e sguardo con un senso del cinema che lascia esterrefatti e rapiti, per come compone il minimo susseguirsi degli attori nello spazio, tra elegie teatrali del corpo scenico e minime, ritmiche fratture della convenzione, con dialoghi che continuano fuori campo, distrazioni dello sguardo, inciampi della parola. E quella sparatoria shock nel mezzo del racconto, evento cardine attorno al quale, nella confusione memoriale, i personaggi vanno incontro alla morte e da essa risorgono, ma sempre cristallizzati, congelati, perché la Storia di cui parlano e che indagano è lì come bestia ferina alla soglia, sangue e polvere da sparo i motori aggiunti del meccanismo del tempo, la violenza, innegabile, inevitabile, in conflitto con la ragione e la parola.
Nikolai, proprietario terriero e uomo di mondo, mette la sua tenuta di campagna a disposizione di alcuni amici, per un soggiorno nella sua grande villa padronale. Per gli ospiti, tra i quali un politico, una giovane contessa, un generale russo e sua moglie, il tempo trascorre tra pranzi e cene luculliane, giochi di società e lunghe discussioni sulla morte e l’Anticristo, sul progresso e la moralità. Man mano che la discussione prende forma e vengono affrontati i vari argomenti, ognuno di loro espone la propria visione del mondo, della storia e della religione. Le ore passano, la discussione si fa più accesa, le questioni si fanno sempre più serie e le differenze di cultura e di punti di vista diventano sempre più evidenti.