Norimberga dà vita a un’idea semplice e particolarmente rischiosa: indagare l’ideale nazista, l’emblema dell’orrore durante tutto il XX secolo, nelle sue ragioni psicoanalitiche, per uno scavo in profondità che intende interrogare la natura stessa del Male. Forse per riconoscerla e sintetizzarla. Forse per sondare l’animo umano nelle condizioni più estreme e farne un dramma fondato sul conflitto di caratteri. Fatto sta che il film, scritto e diretto da James Vanderbilt – che nello script di Zodiac aveva dimostrato la grande capacità di trovarsi a suo agio rimestando nell’ossessione – ritorna nei pressi di uno dei processi più celebri della Storia dopo Stanley Kramer e Yves Simoneau, usando l’ambito giudiziario come corollario necessario per la sua prospettiva psicologica.
Il fulcro della narrazione, tratta dal saggio The Nazi and the Psychiatrist di Jack El-Hai, pubblicato nel 2013, è tutto nel confronto tra lo psichiatra americano Jack Kelley (Rami Malek) e Hermann Göring (che in Russell Crowe pare trovare un’incarnazione proporzionata nella mole e nella personalità complessa e debordante), il gerarca dal grado più alto tra quelli del Terzo Reich sopravvissuti all’idea del suicidio (gli altri erano, tra i più celebri, Rudolf Hess e Alfred Rosenberg). Kelley, incaricato di sondare fattivamente l’ipotesi di un’idoneità al processo dei nazisti, in una fase storica in cui il concetto di “crimini contro l’umanità” non era stato ancora concepito né codificato, è l’arma del giudice della Corte Suprema Robert H. Jackson (interpretato da Michael Shannon) per convincere l’amministrazione Truman a condannare pubblicamente gli alti gradi del Nazismo, cercando di capire se essi condividano una forma patologica che li abbia portati con una certa naturalezza a perseguire le loro azioni.

Vanderbilt divide la vicenda in due fasi, la prima delle quali è ovviamente propedeutica all’altra. La seconda parte è quella che ci si attende da un film che ha nel processo il suo atteso punto di confluenza, per cui si assiste al consueto valzer di testimonianze, interrogatori, botta e risposta pieni di tensione giudiziaria e di strategie per indurre la controparte all’errore decisivo. In più, una lunga, lunghissima documentazione filmata dei campi di sterminio mostrata all’interno dell’aula; sicuramente di durata eccessiva, perché l’innata e ben nota aura di drammaticità delle immagini presentate, a distanza di ottant’anni, pone maggiormente l’accento sulla dismisura del suo utilizzo che sulla volontà tragica di condivisione con la corte.
Più interessante, invece, la prima metà, orchestrata sul confronto e sulla tensione tra i due protagonisti, sul loro transfert emotivo, sulle sottili manipolazioni, su un tacito gioco di ruolo. Vanderbilt è abile a delineare una densa caratterizzazione dei personaggi e un serrato parallelo fondato su dialoghi eloquenti, su comportamenti e reazioni che si rimpallano tra loro fino a riflettersi in una sorta di specchio deformato. Ma anche in questo caso, sfortunatamente, si genera una sproporzione controproducente, per gli equilibri del film e per il senso globale che se ne assume. Crowe è un Göring monumentale nella sua natura di malvagio lucido e titanico: è magnetico, insinuante, addirittura seducente. In questo gioco a due nel quale Rami Malek dovrebbe scoperchiare intenzioni e disegni reconditi del prigioniero pur rimanendone sedotto, il confronto è assolutamente impari. Perché impari è il paragone attoriale, sia per spessore della recitazione, sia anche, più banalmente, per presenza scenica. Ed è qui che Norimberga rischia l’avvitamento su se stesso: far fagocitare il povero psichiatra dal fascino perverso di Russell Crowe nei panni del Maresciallo del Reich non è solo un errore del casting, ma un autogol nel tentativo malriuscito di sfruttare il fascino di un’ambiguità sempre pericolosa. La seduzione del Male, letta in una certa prospettiva, rischia il fraintendimento.

Allo stesso modo, proprio per questo, quando in uno dei tanti accesi dialoghi Göring rovescia l’accusa contro lo psichiatra, puntando il dito sull’ipocrisia degli americani, indignati per i campi di sterminio ma non per le bombe atomiche, ritenute autodifesa e non deliberata aggressione in territorio nemico, è facile avvertire un intenso e fastidioso brivido revisionista, pur nella consapevolezza di essere in presenza di una prospettiva storica di una certa attendibilità. Lungo questo crinale, Norimberga non scioglie mai il suo nodo, non chiarisce, né potrebbe farlo, essendo onesti, se il Male sia di natura antropologica, individuale, strutturale, politica o patologica: il tentativo di scavo nella profondità della psiche resta sul piano superficiale, non andando oltre il gioco drammatico delle azioni e delle reazioni dei personaggi, e il film non possiede quella necessaria profondità filosofica in grado di scandagliare i motivi più riposti di scelte tanto estreme. Più sottile, anche se evidente, è il richiamo al presente, all’eventualità che il Male si incarni in un nuovo suadente e manipolatorio Göring, capace di ammansire le masse, in qualunque luogo, con la sua attrazione malata e perversa. Ogni riferimento al presente americano non è ovviamente per nulla casuale.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, mentre il mondo è ancora sconvolto dagli orrori dell’Olocausto, al tenente colonnello Douglas Kelley, psichiatra dell’esercito americano, viene affidato un incarico senza precedenti: valutare la sanità mentale di Hermann Göring, il famigerato ex braccio destro di Hitler, e di altri alti gerarchi nazisti. Allo stesso tempo, gli Alleati affrontano l’impresa titanica di istituire un tribunale internazionale, per far sì che il regime nazista risponda dei propri crimini di fronte alla storia.