Da 4 Bloods, quattro fratelli neri, s'incontrano non nell'hotel di lusso di Hanoi nel quale si danno appuntamento i cinque reduci del Vietnam di Spike Lee per andare a disseppellire il loro tesoro, ma nella stanza squallidina dell'Hampton House Motel di Miami, la stessa sera di quel 25 febbraio del 1964 in cui Cassius Clay (come ancora si chiamava Muhammad Ali) divenne campione del mondo dei pesi massimi nell'incontro leggendario con Sonny Liston. Quanto il film di Spike Lee era sbrindellato e appassionato, ondivago e acuminato, comunque sempre capace di prenderti al cuore e alla pancia nella sua ricerca di una fratellanza intorbidata dall'oro (nemico pericoloso, da vanificare con una gran risata, come quello della Sierra Madre), così il film di Regina King, all'esordio nella regia, è concentrato e analitico, senza sbalzi di "temperatura", diretto con precisione verso il suo scopo: dimostrare che, allora come ora, da quella condizione, quello sfruttamento, quella contraddizione, si fa fatica a uscire. Anche qui c'entra l'oro.
L'oro, i dollari che i padroni bianchi sono disposti a pagare per godere del talento dei neri, pugili, giocatori di football e attori, musicisti e cantanti, e forse persino per il peso iconografico dell'immagine di Malcolm X, assassinato presto, il 21 febbraio del 1965, dopo John e prima di Robert Kennedy e di Martin Luther King, fratello pacifista. Denaro che certo può poi essere speso per la causa e per gli artisti afroamericani, ma che rischia in qualche maniera di mangiarti l'anima, di distoglierti dallo scopo principale di far insorgere il mondo contro questa ingiustizia, che è connaturata, endemica, striscia sotto la pelle dei bianchi, tutti, anche i migliori, e non raccontiamoci che riguarda principalmente gli Usa e gli altri paesi ad alto tasso di apartheid. Riguarda tutti, anche il civilissimo e ultrademocratico Spencer Tracy di Indovina chi viene a cena?, come l'amabile Beau Bridges che in questo film accoglie a braccia aperte il trionfante campione Jim Brown, amico e vicino, ma poi gli dice «Mi spiace ma non facciamo entrare negri in casa. È stato bello vederti», senza nemmeno coglierne l'enormità paradossale.
Tratto dalla pièce di Kemp Powers (anche sceneggiatore), One Night in Miami racconta di quella notte in cui Cassius Clay, sul punto di convertirsi all'Islam, Jim Brown, sul punto di lasciare il football per la carriera hollywoodiana, e Sam Cooke, musicista e cantante soul leggendario (ucciso anche lui, da tre colpi di pistola, in un motel, nel 1964), sul punto di esprimere le sue corde più profonde e meno compiacenti, s'incontrarono con il comune amico Malcolm X, sul punto di abbandonare la Nazione Islamica. Credevano di andare a un party e invece cominciarono a confrontarsi tra loro e con sé stessi, a mettersi in discussione e pungolarsi, a litigare, ridere, contraddirsi. Sempre e comunque fratelli. È un bel film sull'amicizia vera, quella che è capace di stringerti alle corde e che, dopo la rabbia, finisce quasi sempre per tirar fuori il meglio di te.
Un film che esce anche all'aperto, non solo sul terrazzo sovrastante il motel e nel pub all'angolo, ma anche, all'inizio, in alcuni momenti chiave della storia dei protagonisti, i dubbi rodenti e le concessioni fatte, le umiliazioni e i trionfi. Ma che poi ritorna sempre a concentrarsi in quella stanza, sui volti, la gestualità, le parole, gli sguardi di quattro uomini che cercano, ognuno alla sua maniera, di fare i conti con le proprie scelte e la propria storia. E anche, più o meno narcisisticamente (Cassius Clay), più o meno filosoficamente (Malcolm X), più o meno marxianamente (Jim Brown e, soprattutto, Sam Cooke, il cui discorso sulla circolazione del denaro è formidabile), con la Storia. Perché no? Ricordare e cercare di capire l'oggi attraverso l'ieri non ha mai fatto male a nessuno; non esistono coscienze e cervelli vergini, né bianchi né neri; è il passato che ci addestra e ci condiziona.
Personalmente, sono abbastanza snob (e intelligente) da rifuggire qualsiasi eccesso di politically correct (e quote rosa, o nere, o gialle). Ma qualche problemino di sesso e razza esiste, e quali storie dovrebbe raccontare una regista afroamericana, se non le proprie? Che poi One Night in Miami possa alimentare le casse di Amazon (distributore, non produttore) fa parte, è ovvio, delle contraddizioni che nel film Malcolm rimprovera a Sam, ma anche, da sempre, della natura ibrida del cinema, dei film, opere d'arte (o comunque d'ingegno) che però, per sopravvivere e persino per esistere, devono essere vendute e diffuse, come le canzoni dei Rolling Stones e di Bob Dylan (due perni musicali del film). Quello che conta è che One Night in Miami è un gran bel film, un viaggio dentro quattro teste pensanti e quattro pareti che, da opprimenti e squallide, si fanno accoglienti e vive, un tentativo, lucido e sentito, di mettersi in gioco, di ripensare sé stessi e il proprio lavoro, oggi, come quei quattro miti facevano ieri. Per constatare, magari, che quasi nulla è cambiato.
All’indomani della sconfitta inferta da Cassius Clay nei confronti di Sonny Liston nel 1964, il giovane boxeur si incontra con gli amici Malcolm X, Sam Cooke e Jim Brown per decidere le sorti future della sua vita e, possibilmente, quelle della storia dei diritti civili.