Chi è Mort Rifkin, il protagonista dell'ultimo film di Woody Allen interpretato da Wallace Shawn? «A middle-class jew from the Bronx», come si definisce, docente di storia del cinema con vaghe ambizioni letterarie e il dono espiatorio della cecità selettiva di fronte alle ombre, le increspature, le piccole faglie dei rapporti e delle passioni. In altre parole: l'ennesimo alter ego di un regista che ha popolato la sua filmografia di personaggi che con lui condividono analogie psicologiche, turbe ossessive, illusioni romantiche, complessi di colpa o di autogiustificazione. Di volta in volta nevrotico o paranoide, schlemiel depresso o Giobbe rassegnato e lunare, autolesionista inerme o arrogante imbranato, più frustrato di Alex Portnoy ma anche teneramente ingenuo come il soldato Sc'vèik.
Come sempre in queste circostanze, però, è buona norma non limitarsi agli automatismi riduzionisti, al capestro dell'autobiografismo come passepartotut per imbrigliare l'opera. Perché, almeno nei casi più lucidi e complessi (come quello di Allen), il ricorso a un alter ego diventa vero e proprio progetto mitopoietico, creazione di un microcosmo narrativo fatto di variazioni e ricorrenze. Non siamo più nel campo della stretta aderenza tra elaborazione narrativa e vicende private: come per Philip Roth, si tratta dell'unica scelta possibile per esplorare varianti e possibilità di vita.
Se è vero che, ne sia lui stesso l'interprete o qualcun altro (Larry David, Jason Biggs, John Cusack, Jesse Eisenberg, Timothée Chalamet ecc.), l'alter ego «finzionale» di Woody è spesso un concentrato di ansie e fobie pienamente novecentesche, altrettanto incontestabile è come il suo cinema si sia (tutt'altro che impercettibilmente) modificato per raccontare una spaccatura sempre crescente tra le proprie azioni e il senso del mondo. Buon ultimo portavoce della categoria, Mort Rifkin è colui che, più di tutti gli altri, vive questa separazione come terminale. Lasciato dalla compagna (Gina Gershon), che cede alle lusinghe da poseur (più hipster che maudit) di un giovane regista francese (Louis Garrel), vive un effimero sogno d'evasione con una bella dottoressa (Elena Anaya) ma il suo unico rifugio, la sua sola oasi di comprensione si trova ben al di là della realtà. Non semplicemente tra le brume del mondo onirico, ma in una galleria di sogni che assumono le forme dei suoi film più amati, da Fellini a Lelouch, da L'angelo sterminatore a Il posto delle fragole, da Godard a Jules e Jim («La critica sembra amare ogni film che ha qualcosa a vedere con la realtà», commenta sarcastico a inizio film).
Si tratta indubbiamente di una soluzione ingenua, un modo artificioso per calmierare i momenti incontrollabili di disperazione e di sfogo, ma a ben vedere nasconde anche una franchezza e una trasparenza problematiche. Perché, in fondo, è l'unico modo concreto, per ogni alter ego alleniano, di mettere a fuoco l'impossibilità (obietteranno i maligni: proprio come nel disturbo narcisistico) di discernere l'immagine ideale di sé dalla propria immagine reale. È questo il punto di approdo dell'«intero immaginario di un autore che, entro i confini di un sistema e di un modello culturale a lui estranei, riesce comunque a indagare la realtà traducendone le idee e le ideologie in poetica» (Bocchi). Ma questa volta senza più le scorie autocensorie del discorso sociologico e antropologico: Rifkin non è altro che un chroniqueur fantastique capace di tradurre il proprio atlante emotivo solo abbandonando le traversie esistenziali, come il Rimbaud del Battello ebbro, ultimo rappresentante di un Io che, film dopo film, «si ritrova non soltanto de-collettivizzato, fuori da un sociale che non lo riguarda più perché non lo rappresenta più, ma anche de-personalizzato, svestito dal conforto del soggetto e lasciato vivere come oggetto orfano» (idem).
Con il suo cipiglio contemporaneamente ombroso e serafico, Wallace Shawn ne è forse l'interprete ideale, capace con la sola presenza di sussumere questo cortocircuito isterico, l'oppressione del senso di colpa, la predisposizione a essere sopraffatto dai sentimenti. Assai significativamente, nel film agisce come un flâneur che, in un luogo sconosciuto (San Sebastian, nei giorni del festival internazionale del cinema), percorre traiettorie concentriche, configurando un disorientamento spaziale e materiale che corrisponde alla terribile opacità degli affetti. E se lo spettro della Morte del Settimo sigillo (Christoph Waltz) introduce nel finale una nota crepuscolare probabilmente pleonastica, l'omaggio a Quarto potere supera qualunque forma di affettazione ossequiosa e diventa un corrispettivo, ironico e coltissimo, di una memoria ormai sempre più «virtuale», incapace di sintetizzare le peripezie tragicomiche e le continue peregrinazioni di un Io che, giunto al momento di tirare le somme, si ritrova a fare i conti con l'assenza di risposte e di senso.
Certo, Rifkin's Festival è un film fragile, approssimativo, decisamente minore, che vive di malinconie senili e cinefilia riflessa. Lo stesso Woody, parlando del suo cinema, si servì una volta della metafora della vendemmia. Ma poco importa stabilire se il film appartenga a un'annata più o meno fortunata, se sia bello o brutto, riuscito o imperfetto. Ciò che conta è il modo in cui certifica una nuova tappa di un percorso, dove l'«egotismo» dell'alter ego del cinema alleniano affronta la mancanza di senso in termini di organizzazione d'immagini. Ed è altrettanto poco interessante individuare il grumo che lega quest'Io di riporto, scorticato e clandestino, alle travagliate vicende biografiche dell'autore (a partire dalla recrudescenza del processo Allen-Farrow). Perché a interessare veramente è comprendere l'evoluzione del pensiero di uno dei più grandi intellettuali americani dal secondo Novecento a oggi.
Mort Rifkin e Sue sono una coppia appassionata di cinema. Quando lui inizia a sospettare di una possibile relazione di Sue con un giovane regista, decide di fare un viaggio e partecipare al Festival Internazionale di San Sebastian, così da liberarsi anche del terribile blocco creativo che gli impedisce di portare a termine il suo primo libro.