Al di là la della polisemia del titolo del suo ultimo film (che può indicare chi prolunga il suo mandato, chi avanza o anche i ripetenti), il cinema di Alexander Payne ha sempre avuto il suo fulcro in personaggi residuali, fin dai tempi di Citizen Ruth, il suo esordio nel lungometraggio nel 1996. Una lunga e ricca galleria di esclusi e più o meno allegri sconfitti che si arricchisce del terzetto protagonista di The Holdovers - Lezioni di vita, un magnifico distillato di perdenti, loro malgrado, ritrovatisi completamente soli nelle vacanze di Natale all’interno di un prestigioso liceo americano. Chi perché dimenticato dalla famiglia (lo studente Angus Tully, la cui madre va in luna di miele con il nuovo marito), chi perché ha perso un figlio in Vietnam (la responsabile della cucina della scuola, Mary), chi perché non ha niente di meglio da fare (il professor Paul Hunham, single, odiato dai suoi studenti e sottovalutato dal corpo docenti, interpretato da un bizzarro e divertente Paul Giamatti). Una serie di mancanze che s’intrecciano e si autoalimentano, con la famiglia, tema ricorrente nella filmografia di Payne, a fare da sfondo con le sue varie ed eventuali disfunzionalità.
Tuttavia, è passato molto tempo dall’inizio della carriera di Payne e soprattutto pare trascorsa una vita, ben più di ventiquattro anni, dall’altra incursione del regista nell’ambito educativo, in quell’Election che, complice il soggetto tratto dal romanzo Intrigo scolastico di Tom Perrotta, si era dimostrato un piccolo capolavoro di cinismo che guardava, criticandoli, direttamente ai valori del successo negli Stati Uniti. Niente di tutto questo, in The Holdovers, se non qualche riferimento velatamente sarcastico a una gioventù alto-borghese bianca, ricca e viziata che sbuffava sui libri per rinviare l’arruolamento nel Vietnam o un paio di accenni alla brama di denaro per far quadrare i bilanci da parte dei dirigenti, poco interessati all’istruzione, ma attenti ai rapporti clientelari con le famiglie facoltose. In realtà, The Holdovers guarda invece altrove, su un altro versante, quasi a edificare un confortante e nostalgico racconto di Natale in cui le carenze individuali s’incontrano, si scambiano comprendendosi e si colmano per affrontare il soffocante senso di solitudine nelle relazioni che caratterizzano i personaggi.
Senza alcuna traccia di cattiveria, come se Payne l’avesse abbandonata superando i sessant’anni, il film fa un costante riferimento al passato, rievocato attraverso una duplice prospettiva. Da un lato, quello interno alla storia raccontata fa in modo che tutto ciò che è accaduto nelle vite dei tre protagonisti alimenti la frustrazione del presente. La sceneggiatura di David Hemingson centellina le informazioni sui traumi patiti, mentre la regia di Payne si pone al servizio dell’accuratezza definitoria dei personaggi orchestrando la struttura del film lungo un movimento che si trasforma ― in un modo piuttosto prevedibile, perché obbligato ― in iniziale conflitto, successiva sovrapposizione e conclusivo ribaltamento delle aspettative future. È soprattutto nel finale che si notano l’enorme distanza tra The Holdovers ed Election e tutta la carica di scetticismo smarrita per strada da Payne [attenzione: spoiler!], malgrado entrambi i protagonisti restino ugualmente senza lavoro, perché in Election l’insegnante (interpretato da Matthew Broderick) era una vittima stritolata nell’ingranaggio del sistema sociale, qua è invece un disilluso che si presta volontariamente al sacrificio per dotare di speranza chi rischia di perderla definitivamente.
L’altro riferimento al passato è nell’impostazione stessa del lavoro. Payne, di fatto, realizza un film ambientato nel 1970 con la deliberata volontà di ricreare lo stile della New Hollywood. Non si tratta tanto di replicare un mood, a cui contribuiscono con la consueta facilità i costumi, le acconciature e un paio di canzoni ben assestate (per esempio la solita The Wind di Cat Stevens, ormai quasi un inno nelle sequenze riflessive contestualizzate nei 70s, e la molto più rara In Memory of Elizabeth Reed dei fantastici fratelli Allman), quanto di assumere una vera e propria estetica rétro. Il taglio delle inquadrature, i colori pastosi, una zoomata vertiginosa all’indietro su Paul Giamatti alla disperata ricerca del suo allievo Angus che pare presa di peso da Il laureato di Mike Nichols, addirittura la grafica dei titoli di coda, oltre ad alcune sensazioni di déjà-vu nei rapporti, nella poetica e nelle situazioni (Ashby, Penn e Forman per tenersi stretti), più che la dimostrazione di una filiazione spontanea, rappresentano un abbandono lirico nel cinema che fu che esclude qualsiasi ipotesi metaforica su un’America del presente. Come suggerisce Paul Giamatti al termine del film, rivelando all’allievo quale dei suoi due occhi sbilenchi sia quello dritto, esiste una sola prospettiva corretta ed è quella di un racconto sui buoni sentimenti natalizi e sulla solidarietà che nasce dalla sofferenza. In quest’ottica e giunto a questo punto della sua vita, Payne probabilmente realizza il suo film più personale da molti anni a questa parte.
New England, 1970. Uno scontroso professore di un liceo privato rimane nel campus durante le vacanze di Natale per sorvegliare gli studenti che non possono tornare a casa. Alla fine stringe un improbabile legame con uno di loro, un ragazzo strambo e problematico, e con la cuoca della scuola, il cui figlio risulta di recente disperso in Vietnam.