Guardando alla scorsa stagione cinematografica italiana, si può notare come sia oggi più frequente incontrare racconti della criminalità organizzata colti da un punto di vista femminile. Film come A Chiara di Jonas Carpignano o Una Femmina di Francesco Costabile, ispirandosi a fatti reali, ritraggono eroine ribelli, intenzionate a sfuggire o quanto meno a combattere la spirale di vendette e giochi al massacro messa in atto da una gerarchia criminale squisitamente testosteronica.
In Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa lo sviluppo della storia è analogo: una “affiliata” criminale, marginalizzata al mero ruolo di donna e madre dei figli del boss, sfugge al controllo delle famiglie, dissacra il nome, tradisce, ma lo fa in nome dell’amore sorto per il figlio del boss avversario. L’amore come antidoto al conflitto, l’emancipazione come riscatto dal contesto criminale sono metafore consolatorie solo evocate, perché in Ti mangio il cuore, a svettare sui motivi e i sottotesti in gioco, è la voglia di una narrazione scorrevole e conturbante, in cui eros e morte si avvicendano sequenza dopo sequenza. Si passa ancora una volta per i classici: Shakespeare sì, ma anche Kill Bill, come nella sequenza iniziale del film, nella quale una madonnina profanata dagli zampilli del sangue appena versato disvela le note espressivo-tematiche su cui l’autore giocherà per tutto il racconto: sacro e morte sono indissolubilmente legati, ad indicare una società in cui la vendetta e i regolamenti di conti sono freddi rituali connaturati alla vita, tradizioni consolidate e ricorsive.
In questo senso, anche grazie alla sublimazione del suo dato visivo in un bianco e nero virtuoso e laccato nel suo scolpire i corpi, Ti mangio il cuore assume i toni di un western in cui il Gargano è un terreno senza legge, spoglio e atemporale, epicizzato da una fotografia severa e controllata. Questo approccio scultoreo all’immagine attesta la dimestichezza dell’autore nel discorso formale e compositivo ma finisce per premiare la fissità della prossemica attoriale rispetto al movimento, la stilizzazione rispetto all’indagine psicologica del personaggio. In fondo, i caratteri in campo camminano sulle spalle dei giganti archetipici che compongono da millenni il racconto di guerra, partendo da Omero, passando per Sofocle e approdando a Mario Puzo (lo sviluppo delle storie del protagonista maschile e dei suoi fratelli è molto simile al trittico interpretato da Pacino-Duvall-Caan de Il Padrino di Coppola).
Marilena, interpretata da una credibilissima Elodie si muove insomma in uno scheletro drammaturgico in fondo citazionista, ma combatte contro un’istituzione sanguinaria tanto solida quanto le sue durature abitudini rappresentative. Tacco dodici tra le tonache del pentimento e del lutto, si muove tra le rovine sociali, sola contro l’insensatezza della legge per cui sangue chiama sangue. È il vettore, fin troppo in ombra, che muove una narrazione che, nel suo affollare la scena di personaggi ed esecuzioni punta a farsi epopea. Il film si ispira alla storia di Rosa di Fiore, prima donna testimone di giustizia, ed è quindi omaggio a chi è riuscito a divincolarsi dall’abbraccio soffocante della criminalità organizzata, perché racconta i volti contro chi i volti e la memoria li ha voluti cancellare. Ma in Ti mangio il cuore, la mafia del Gargano, efferatissima e capillare, è solo una tetra ambientazione, uno scenario di wilderness in cui ritrarre questo personaggio così freddo e riflessivo, uno sfondo su cui stagliare la silhouette di una storia pop di riscatto, più che di denuncia.
Puglia. Il promontorio del Gargano è conteso da criminali che sembrano venire da un tempo remoto governato dalla legge del più forte. Una terra arcaica da far west, in cui il sangue si lava col sangue. A riaccendere un'antica faida tra due famiglie rivali è un amore proibito: quello tra Andrea, riluttante erede dei Malatesta, e Marilena, bellissima moglie del boss dei Camporeale. Una passione fatale che riporta i clan in guerra. Ma Marilena, esiliata dai Camporeale e prigioniera dei Malatesta, contesa e oltraggiata, si opporrà con forza di madre a un destino già scritto.