Giochiamo un po’ con i titoli, per cominciare: True Mothers come Madre di Bong, La madre di Muschietti, Madre! di Aronofsky, Madre di Sorogoyen; le Madres paralelas e molto altro cinema di Almodóvar; Mia madre di Moretti e La scomparsa di mia madre di Barrese; Tutto sua madre di Gallienne per citarne solo alcuni, diversissimi, tra l’altro, nell’approccio al tema; come molte sono le opere che affrontano il motivo della maternità negata (perché prematura, perché non opportuna, perché si vuole altro dalla vita e nella vita) o, al contrario, desiderata e vissuta fino allo stremo (due esempi per tutti, La scelta di Anne - L’événement di Diwan e Stitches - Un legame privato di Terzić). Altrettanti sono quelli che indagano la relazione tra la genitorialità biologica e quella surrogata o adottiva o affidataria e che vertono magari su scambi di figli in culla, da Father and Son di Kore’eda a Il figlio dell’altra di Lévy, senza dimenticare il buon vecchio Chatiliez.
Il nostro film affronta, in effetti, questo tema: l’intreccio verte sulla richiesta che arriva, dopo sei anni, dalla madre biologica di un bambino alla coppia che lo ha adottato, di riavere il proprio figlio o di avere, al suo posto, del denaro. E sembra mettere a confronto le due madri per capire quale sia quella “vera”, come sottolinea il titolo. Quella che può dirsi madre a tutti gli effetti; quella che può farlo felice. Che è un problema presente in molti film (questo, tra l’altro, è tratto da un romanzo di Mizuki Tsujimura che vanta anche un adattamento televisivo), la forza del “sangue” che mette alla prova o sconvolge situazioni familiari serene quando non felici, ed equilibri consolidati. L’opera inizia con i rumori del parto sull’immagine del mare e poi di un’isola e di un’aquila che si libra nel cielo per andare, nella prima parte, a raccontare la routine familiare dei coniugi Kurihara, che hanno adottato Asato alla nascita dopo aver tentato invano di avere dei figli: due genitori modello, che affrontano le difficoltà a testa alta (il primo accadimento, di ambito scolastico, è un preludio sottile di ciò che verrà) e che sembrano avere a cuore, più di ogni altra cosa, la felicità del bimbo.
La richiesta di cui sopra di Hikari, la sua madre biologica, quattordicenne all’epoca del parto, che i coniugi stentano a riconoscere anzi all’inizio non riconoscono proprio, e questo introduce tra l’altro nell’opera una curvatura gialla, mette in crisi quella routine e, rispetto al film, apre una seconda parte in cui la regista, muovendosi nel tempo come aveva fatto in precedenza, si sofferma su questo personaggio e sugli eventi salienti della sua vita: l’innamoramento adolescenziale, la gravidanza, la reazione dei genitori che la obbligano a rivolgersi a una struttura che coniuga le esigenze di madri che non possono o non vogliono tenere i figli e di donne che li vorrebbero ma non possono averne, e, dopo l’esperienza straziante della consegna del neonato perché Hikari, in realtà, quel figlio lo vorrebbe tenere, l’abbandono della famiglia, il ritorno al centro in cerca di sostegno, un lavoro precario e poi, a causa dei problemi di un’amica a sua volta madre di un figlio dato in adozione, la necessità di avere del denaro. Ma anche la nostalgia lacerante del bambino, a cui ha scritto una lettera e dedicato una canzone, la stessa che la madre adottiva gli canta all’inizio.
In questo senso il film accoglie e mostra, oltre alla storia di un’adozione con tutte le criticità del caso, la storia di una ragazza sfortunata, che da studentessa modello si trasforma in un’emarginata, disconosciuta dalla famiglia; e, nel momento in cui arriva al centro, la storia di due ragazze che come lei aspettano un figlio che non possono tenere ma che a differenza di lei hanno vissuto situazioni di prostituzione e di degrado, per cui il film assume una connotazione sociale, con risvolti documentaristici. La storia di Hikari è forse la parte più efficace del film ed è quella in cui veniamo a conoscere meglio il personaggio della signora Asami, colei che gestisce la struttura, che non ha potuto avere figli ma che ha aiutato tante ragazze a dare in adozione i propri, e tante donne a realizzare un desiderio di maternità. E se parliamo di madri “vere” dobbiamo mettere nel novero anche lei, che riaccoglie Hikari quando non sa dove andare e che se ne prende cura. Perché è questo che fa la differenza, prendersi cura, sia per le diverse madri che il film presenta (anche quella di Hikari, insensibile e troppo attenta alla forma) sia per personaggi secondari come il datore di lavoro della ragazza, che non ha saputo prendersi cura della compagna e che adesso si preoccupa per lei, inquieta e sofferente.
Più di tutto però, in questo film, conta la regia e conta quindi Naomi Kawase, con i suoi temi e il suo stile: l’andamento lento, sofferto, meditato, ma anche sereno e arioso, che ricorda in alcuni tratti Terrence Malick; le atmosfere soffuse, i tramonti, la luce, come in Hikari (2017); e il mare, il cielo, i boschi, i ciliegi in fiore ma soprattutto il mare e il paesaggio urbano inquadrato nella distanza, in modo che non risulti oppressivo; il vento, la luna, gli animali che compaiono ogni tanto, a sottolineare la connessione del tutto; e lo scorrere del tempo, e della vita. La forza della vita. Che si esprime nell’amore della regista per i suoi personaggi e per i sentimenti che manifestano e nel modo di riprendere i paesaggi e le persone, per cui anche ciò che è dissonante (le sfocature, le inquadrature tagliate, alcune ellissi narrative) acquisisce un’aura di pacatezza e la sofferenza può trovare un senso nello sguardo di un bambino tra due donne, che è uno sguardo d’amore.
Una coppia che ha adottato un bambino deve fare i conti con una donna che dice di essere la madre biologica.