Gone Girl. Una donna (che se n’è) andata. Una donna sparita. Ma anche: una donna andata fuori (di casa, città, di testa). She’s gone. She’s off. Amy (Rosamund Pike) non c’è più, non c’è qui, non c’è in sé. Essere fuori dal mondo: allontanarsene, non allinearsi. Essere fuori dalla realtà: scollarsi, non adeguarsi. Essere pazzi. Amy’s nuts.
La gone girl di David Fincher è una donna che non abita più qui, un sesso marcatamente opposto che rifiuta il compromesso ma che più di ogni cosa rifiuta il compromesso dei ruoli. Off balance? Di più: Amy è off target, fuori bersaglio. Scivola dal contesto, si toglie dal mirino. Bullseye? Mai più: Amy si libera per disarcionare l’uomo dal trono. Dark lady? Può darsi. Però Gone Girl è tutt’altro che un noir. Piuttosto è una commedia hawksiana dove la battaglia dei sessi si sviluppa attorno all’apocalisse di specie di La guerra dei Roses con la cupezza però della tragedia. Ma commedia come potrebbe intenderla uno come Paul Verhoeven: difatti Gone Girl sembra Basic Instinct scritto da I. A. L. Diamond e diretto (naturalmente) da Billy Wilder. Tutto il cinema del regista olandese si sviluppa attorno a un immaginario di lotta di genere, e Gone Girl sembra ripercorrerne alcune dinamiche, obliquità identità fuggevolezza trasparenza (fantasmatica) comprese.
Perché si dovrebbe incolpare di misoginia un film centrato sull’idea della donna come strumento capace di capovolgere la sintassi del sociale? Non è casuale che anche Verhoeven sia stato quasi sempre vittima delle medesime accuse: ricordate il clamore mediatico statunitense, e prevalentemente di stampo queer-femminista, all’uscita del capolavoro del 1992? Eppure Basic Instinct era per l’epoca un’opera di assoluta emancipazione del gender dal sistema, il gentil sesso che strappa il velo (anche dell’intimo, nell’intimo) del dato conforme, ben più di ogni Donna in carriera del decennio precedente. Amy è Catherine Tramell 2.0: due scrittrici, due QI superiori alla media, due donne che non hanno bisogno degli uomini ma dei quali hanno bisogno per farne modelli da superare, regimi da smantellare.
Il gender, allora. Gone Girl è un film di donne e degli uomini che ne fanno le spese, di generazioni e di gerarchie, di donne sulle tracce di uomini e di donne, di donne più razionali degli uomini, di donne che si trasformano in altre donne e che poi si ritrasformano ancora, di donne che usano se stesse per confermarsi donne, di donne oggetto e di donne prigioniere e di donne ribelli. Di donne to die for, come recita il titolo originale di un Van Sant troppo presto – e ingiustamente – rimosso.
E l’uomo? Non può che soccombere, scansarsi, calare le braghe, essere destinato a una clinica, magari morire, e infine, dopo la morte, risorgere e accettare la mano della consorte per l’ultima, definitiva volta: Nick (Ben Affleck) e Amy si avviano verso le telecamere per la transustanziazione finale in corpi estranei, quelli prescritti, i corpi riordinati. E come in un Viale del tramonto ambientato a Stepford, scendono le scale della disciplina. Gloria Swanson, circondata da fotografi, luci e macchine da presa, finiva nell’oblio, portando a termine il cinema; Nick (Ben Affleck) e Amy, fra sguardi curiosi e salotti pronti per un prime time televisivo, tornano ad essere una nozione, l’archetipo del sesso e dei sessi uniti in matrimonio. Comunque la si veda, è (ancora una volta) la morte in diretta.
E in tutto questo morire (cioè finire, svestirsi degli abiti consueti, mutare) e ritornare, in Gone Girl la donna rimane, infine, andata, sparita. Della donna sono spariti il concetto chiuso, il pensiero dominante, la prospettiva in minore; andate sono la forma oggettistica e la fantasia di remissione, andati sono il garbo dell’essere e il galateo dell’offerta. Gone. Ciao.
Nick Dunne è un uomo che decide di tornare nella sua città natale per aprire un bar. Poco dopo, nel giorno del quinto anniversario del loro matrimonio, sua moglie scompare misteriosamente e Nick diventa il sospettato numero uno della sua sparizione