Sabina Guzzanti, con la sua abituale tetragona sicurezza, ha iniziato da tempo un percorso che l’ha portata, cineasta d’assalto, ad abbandonare il racconto di un’Italia berlusconizzata partendo da un suo punto di vista personale – o meglio, da un punto di vista che la riguardava direttamente, come in Viva Zapatero! o Le ragioni dell’aragosta – per abbracciare l’ambizione del grande affresco-storico politico, come si intuiva già in Draquila – L’Italia che trema e come è evidente nel suo ultimo La trattativa.
Qui Guzzanti, assecondando il suo titanismo, decide di ricostruire in maniera onnicomprensiva e monodimensionale uno dei momenti più bui e indecifrabili della nostra storia recente: la presunta trattativa Stato-Mafia che portò alla sospensione della politica stragista di Cosa Nostra dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino.
Guzzanti sceglie una messa in scena ibrida, a metà strada tra suggestioni di teatro brechtiano ridotto al grado zero e cabaret televisivo di denuncia: un gruppo di “lavoratori dello spettacolo” (quanta falsa modestia in questa definizione da sindacalismo guerrigliero) che interpreta, riscrive, spiega, analizza la storia italiana prendendo come guida dichiarata l’impressionante mole di atti processuali che le aule giudiziarie hanno prodotto su quell’inestricabile groviglio.
Il tono è quello dell’imbonimento assertivo: un narratore onnisciente che rivela allo spettatore-popolo la verità di cui è il solo ad avere conoscenza, un Virgilio furente che vorrebbe guidarci in sentieri troppo ingarbugliati per noi comuni mortali. Ma se l’escamotage stilistico del reenactment in spoglie scenografie teatrali è francamente rivedibile, questo non sembra essere il difetto peggiore di La trattativa.
Autoincoronatasi difensore di un senso civico altrimenti inespresso dal resto del mondo, Guzzanti catechizza mescolando realtà provate a supposizioni acrobatiche, costruisce uno schema che piega qualsiasi problematicità a un elementare rapporto di causa-effetto, ridicolizza e banalizza personaggi come Giancarlo Caselli – descritto come un Candide senza esperienza catapultato nell’inferno palermitano – e viene colta, sul più bello, dal solito raptus antiberlusconiano che la porta all’ennesimo travestimento guittesco completamente sbilenco rispetto al tono del film. Ogni fatto politico viene semplificato e ricondotto a uno schema, quasi che il garbuglio dell’Italia di quegli anni fosse una semplice linea retta che aspettava Guzzanti per poter essere rivelata.
La trattativa non ha la necessaria forza cinematografica – anche se non ha timore di riferirsi a modelli altissimi, come il Lucky Luciano di Rosi – né, tantomeno, il distacco e la complessità di una vera inchiesta storico-giornalistica. L’operazione di accumulo, che finisce per annegare le parti più inquietanti del racconto in un mare di deduzioni a volte ovvie e a volte aleatorie, rende il risultato simile a un’orazione civile da prime time televisivo. La sconfinata ambizione del film – e l’indubbia vastità del lavoro di ricerca – richiedeva un approccio più serio e problematico, ma la certezza di essere sempre nel giusto tarpa le ali a un progetto che, guardando le stelle, finisce per inciampare continuamente. La montagna, alla fine, ha partorito un topolino.
Di cosa si parla quando si parla di trattativa? Delle concessioni dello stato alla mafia in cambio della cessazione delle stragi? Di chi ha assassinato Falcone e Borsellino? Dell’eterna convivenza fra mafia e politica? Fra mafia e chiesa? Fra mafia e forze dell’ordine? O c’è anche dell’altro? Un gruppo di attori mette in scena gli episodi più rilevanti della vicenda nota come trattativa stato mafia, impersonando mafiosi, agenti dei servizi segreti, alti ufficiali, magistrati, vittime e assassini, massoni, persone oneste e coraggiose e persone coraggiose fino a un certo punto. Così una delle vicende più intricate della nostra storia diventa un racconto appassionante.