“La sensazione di essere colmati dallo splendore del mondo”: è questo ciò che sostanzia Viaggio al Polo Sud di Luc Jacquet (visto a Locarno e poi al CinemAmbiente di Torino) che è l’ennesimo viaggio dell’autore al Polo Sud nell’arco di trent’anni di attività, prima come biologo e studioso del comportamento animale, poi come fotografo e regista; ed è quello che lui si augura per “i nostri figli”, le nuove generazioni, che è importante che vivano in un ambiente sano (il film ha anche un messaggio ecologico, di salvaguardia del pianeta, in questo caso dei ghiacciai che stanno scomparendo) ma che è importante anche che sappiano vedere, che sappiano guardare al mondo con uno sguardo vergine e aperto, cogliendone innanzitutto la meraviglia.
Jacquet nel film, che è abbastanza diverso dai suoi precedenti, fa esattamente questo: osserva l’incredibile paesaggio dell’Antartide, con i suoi cieli, i suoi ghiacci (banchise, iceberg e veri e propri ghiacciai, come ci spiega a un certo punto), il suo mare a tratti calmo a tratti tempestoso e i suoi animali (pinguini ma anche foche, balene azzurre e uccelli marini), dall’esterno, con tutto il rispetto che questo richiede nella sua maestosità, mettendosi in un atteggiamento di ascolto, ma al contempo con coinvolgimento e amore, entrando in esso su un piano più profondo, potremmo dire spirituale: “Bisogna spogliarsi di tutto per apprezzare la vita che sta sulla riva opposta”, dice a un certo punto l’autore, riferendosi anche all’«impressione di essere sulla balconata del mondo, di vedere tutto da lontano», come se fosse un astronauta. Lo spazio, il tempo. Riflessioni esistenziali. Materia e spirito che hanno lo stesso valore (“Ascolta il sospiro del ghiaccio” e “Abbandonati, qui nulla ti costringe alla realtà, ma se chiudi gli occhi c’è un mondo di suoni per te”, anche quello delle foche che amoreggiano stando sotto il livello del mare) perché in un posto come quello “tutto è più grande di noi, dal tempo alle forze in gioco”, e noi scompariamo: “Mi rimpicciolisco volentieri per lasciare spazio alle forze titaniche” e “In questo vuoto imparo di nuovo che ogni vita è preziosa”; nel bianco a perdita d'occhio, un paesaggio “che non si dà pena dell'uomo” e che è, d’altra parte, per Jacquet un paesaggio dell’anima. Perché l’intenzione sottesa al film sta in un’altra dichiarazione del regista: “Ho voluto concedermi una grande libertà per condurre lo spettatore oltre la semplice descrizione di paesaggi che oggi si può facilmente reperire sui social network o nei documentari. Qui volevo raccontare piuttosto i paesaggi dell’anima. Per questo, in sintonia con Christophe Graillot, il direttore della fotografia, ho scelto un approccio differente. L’obiettivo era allontanarci dal realismo e avvicinarci ai rapporti emotivi”.
E infatti questo film, più che guardarlo, lo si sente. Nel senso che lo si vive. Si entra davvero in quella dimensione, in quello spazio immenso; si vive davvero il rischio della traversata da Capo Horn (la via che Jacquet preferisce per arrivare in Antartide è quella della Patagonia cilena), si vedono davvero le acque ingrossarsi sotto di noi, scure e tempestose; e si percepisce pienamente la meraviglia del bianco, degli spazi bianchi della neve e del ghiaccio, come anche la maestosità degli albatri o la giocosità dei pinguini imperatore. Jacquet osserva discreto, spiegando qualcosa attraverso l’uso della voce narrante e allo stesso tempo riflettendo, e noi osserviamo e riflettiamo con lui. È un’esperienza sensoriale. E lo è innanzitutto perché, come si diceva, lo scopo dell’opera non è documentaristico ma è quello di portare lo spettatore a fare a sua volta un viaggio, anche nella sua anima, per cui il film è suggestivamente girato in bianco e nero, tranne che nel breve momento in cui il ghiaccio diventa azzurro; perché l’autore, nonostante parli e in qualche modo illustri la situazione, riferendosi anche a coloro che hanno esplorato per primi quelle terre, a volte morendoci, si tiene il più possibile nascosto, lasciando parlare lo spazio: per tutta la prima parte non lo si vede quasi, e solo nella seconda comincia ad apparire ma mai frontalmente e da vicino, sempre da dietro, di profilo o in lontananza, sfocato. Poi per la fotografia strepitosa, che gioca con la scala dei campi e dei piani per darci tutte le possibilità di visione di quelle terre, anche alzando la camera al cielo (“Chi non ha mai sognato di cavalcare le nubi?”) o facendola entrare nell’acqua, a riprendere il ghiaccio e, sotto di esso, le foche che si diceva. Per il lavoro sul suono (“Questo film è una conversazione tra immagine e suono”, che non vuole descrivere ma trasmettere sensazioni), che contribuisce all’effetto cinestesico del tutto. Un lavoro sui sensi. E infine per la poesia di alcune immagini, come quella conclusiva: Jacquet inquadrato in campo lunghissimo dall’alto, piccolo piccolo, puntino nero in un mare di bianco, che parla dello splendore del mondo sulle note del Nisi Dominus RV 608: Cum dederit di Antonio Vivaldi.
Un viaggio straordinario tra Patagonia e Polo Sud. Un altro tributo di Luc Jacquet all’Antartide e al suo fascino immenso, minacciato sempre più dal cambiamento climatico.