Ce l’hanno quasi fatta: dopo trentatré anni, un giovanotto libanese invasato di religioso furore (e magari anche attratto dagli oltre 3 milioni di dollari offerti come compenso), che certamente non ha mai letto un solo paragrafo dei suoi libri, a parte le poche frasi estrapolate ad arte dagli ayatollah per lanciare la fatwa, ha quasi ucciso lo scrittore Salman Rushdie che si era appena affacciato sul palco della Chautauqua Institution per il suo intervento. Fortunatamente, pur ferendolo gravemente, le coltellate non hanno ucciso Rushdie; e speriamo che una degli affabulatorio più acuti e lussureggianti della letteratura contemporanea possa tornare a scrivere presto. Oggetto della fatwa di Komeini fin dal giorno di San Valentino del 1989 (quello che lui ha chiamato “My Unfunny Valentine”, dal momento che il 14 febbraio di ogni anno ha continuato a ricevere un biglietto di minaccia), Rushdie nei suoi romanzi e racconti è sempre stato acuminato e critico verso integralismi, illiberalismi, fanatismi di qualsiasi provenienza socio-politica o religiosa, contro ogni “persecuzione intellettuale”, compresa quella che ha colpito Roman Polanski. In momenti oscuri come quelli attuali di intelligenze del genere dovremmo far tesoro, e non annientarle tra letali coltellate e polemiche velleitarie.
E fa molto piacere che siano due signore, indifferenti a quella sorta di “fatwa” che l’integralismo femminista americano (e non solo) ha lanciato su Woody Allen, a presiedere alla pubblicazione del nuovo libro dell’autore/regista: Daphne Merkin, scrittrice, critico cinematografico e saggista newyorkese, che ne firma l’introduzione, ed Elisabetta Sgarbi, che ne pubblica l’edizione italiana con la Nave di Teseo. Zero Gravity raccoglie una ventina di quei ritratti-saggetti-raccontini che fecero la fortuna di Allen comedian negli anni 60 e 70 e che poi lui ha continuato a scrivere per giornali come il «New Yorker»: folgoranti divagazioni su personaggi dai nomi improbabili e irresistibili, impresari o produttori semi-falliti che circolano intorno a Manhattan, star erotomani (del cinema, della musica o del web) facilmente riconoscibili, galline sceneggiatrici e mucche vendicative, il pollo del generale Tso e le aragoste di un ristorante dell’Upper East Side nelle quali si sono reincarnati due onesti professionisti. Ogni tanto compare un omino con gli occhiali dalla pesante montatura nera e una calvizie incipiente nel quale è facile identificare l’autore, che nell’ultimo racconto lungo crea un vero e proprio alter ego, Jerry Sachs: leggere Crescere a Manhattan è come guardare un suo film, ironico e malinconico.