Il pregio maggiore di Guerra e pace è al tempo stesso il suo limite, o volendo anche il contrario: nei limiti di un progetto andato definendosi nel tempo, i due registi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sono riusciti alla lunga a trovare la direzione verso cui puntare, costruendo il film mano a mano che accumulavano materiale e restituendo poi nel montaggio la fatica e l’illuminazione di tale procedimento.
Le due ore e sette minuti di durata sono troppe, ma sono l’espressione più diretta e onesta di un rapporto aperto, appassionato, con il tema affrontato, che è quello del legame tra il cinema e la guerra, la seduzione opera dall’immagine di morte e la sua costruzione, il suo recupero negli archivi, il suo restauro nei laboratori, la sua analisi nei centri di studio. All'opposto, però, nel film emerge inevitabilmente il tema della pace, «che non va bene perché ci fotte il lavoro», come dice ai propri allievi un insegnante della Legione straniera francese, ma è anche il mestiere delle ambasciate, dei ministeri degli esteri, delle unità di crisi come quella della Farnesina, eccezionalmente mostrata nel film e chiamata a gestire la presenza di italiani all’estero.
Come sempre, D’Anolfi e Parenti filmano il lavoro: analisti che costruiscono mappe digitali delle zone di guerra; restauratori che ricompongono fisicamente e poi digitalmente i filmati della guerra in Libia del 1911; dipendenti dell’ambasciata italiana che rintracciano al telefono cooperanti internazionali impegnati in Siria, militari francesi che insegnano agli allievi e futuri report dell’esercito il modo in cui interpretare un dipinto, una foto o un filmato che ritraggono o riprendono scene di guerra; militari che si esercitano in ricostruzioni di scenari bellici, con al fianco gli operatori che filmano le loro gesta. Per una volta non c’è confusione tra realtà e finzione, non c’è una riflessione sulla moralità dello sguardo: dal conflitto coloniale in Libia ai tumulti odierni di quella zona, dalla guerra civile in Siria alle guerre che verranno e per cui i soldati si allenano, Guerra e pace si chiede qual è il posto delle immagini, prima ancora del loro ruolo, senza dimenticare la presenza fisica di chi quelle immagini le realizza, le riprende, le analizza, le studia e poi le archivia e infine le restaura, perché il presente possa diventare passato da analizzare in futuro.
Naturalmente il film non può che evocare i modelli di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, di Harun Farocki e di tutto il cinema sperimentale e d’avanguardia che ha studiato, approfondito, frammentato, sondato le immagini che riprendono, raccontano, osservano, criticano, scompongono e ricompongono la guerra. D’Anolfi e Parenti faticano non poco a trovare la propria voce, a riprendere strade già battute senza ripeterne gli esiti, ma vi riescono proprio laddove giocano sul loro terreno, interessandosi, cioè, alla costruzione materiale di uno sguardo e di un punto di vista che supirino l’oggettiva e la soggettività del dispositivo e chiamino in causo la presenza tanto del creatore di un'immagine quanto dei suoi possibili spettatori.
Per questo Guerra e pace è un film umanista e umanissimo: perché nei suoi quattro capitoli traccia un percorso storico tanto didascalico quanto prezioso (Capitolo 1: Passato remoto. Libia 1911, la guerra incontra il cinema; Capitolo 2: Passato prossimo. Le visioni si moltiplicano; Capitolo 3: Presente. Il mestiere delle immagini; Capitolo 4. Futuro. Dove tutto è già scritto); perché nel senso che trova alle immagini proprie e a quelle archiviate (recuperate presso l’Istituto Luce, la Cinémateque Suisse, l’Archivio della Croce rossa internazionale, gli Ecpad Archives dell’esercito francese) scorge una lezione universale che riconosce il sacrificio di ogni vittima della guerra e affida agli spettatori di ieri, oggi e domani il compito di tramandarlo. Dalla Libia agli orrori del ’900, alle guerre asimmetriche del XXI secolo.