Un mondo immobile, immutabile. C'è il padrone, che vive in città, e non ha mai i soldi per pagare gli stipendi. E ci sono gli operai, che ogni giorno ripetono gli stessi gesti, e accettano il loro destino (il giogo, l'ingiustizia di un potere senza regole) come fosse inevitabile, invincibile, imperscrutabile. Nessuno protesta, in quella cava in cui si fabbricano mattoni, con le sue misere casupole in cui vivono intere famiglie: tutti si lamentano sottovoce, tutti chiedono uno sforzo al padrone, ma lui trova sempre il modo di promettere e rimandare, contando sulla devota soggezione dei suoi lavoratori, sulla paura di perdere anche quel poco che hanno.
È questo il mondo raccontato da Wasteland, secondo film dell'iraniano Ahmad Bahrami. Ma è il modo in cui lo fa, ciò che conta davvero. Un 4:3 claustrofobico, anche quando un campo lungo osserva a distanza il lavoro manuale di una donna che svuota uno stampo, un bambino che impila i mattoni, un ragazzo che li porta alla fornace dentro una carriola. Un bianco e nero limpido, espressivo, spietato, che definisce le (povere) forme senza lasciare scampo e racconta un luogo grigio fatto di polvere e sudore. Ma soprattutto, Wasteland è attraversato da lunghe, lente carrellate, che sono il segno di quella dimensione immutabile, che si attardano spesso lungo le pareti, arrivano "in ritardo” dentro l'azione, raggiungono un altro operaio dentro una situazione che si ripete sempre uguale, nell'ufficio del capo.
Al centro della storia c'è un discorso del capo, l'annuncio della chiusura della cava, su cui il film continua a tornare, facendolo ascoltare un po' di più, facendolo guardare da un altro punto di vista, inseguendo questo o quel personaggio, svelando le dinamiche di una piccola società che è identica a quell'altra là fuori, l'Iran. Le tensioni fra gruppi etnici diversi (i curdi non li vuole nessuno), l'ostinazione di un padre che non vuole dare sua figlia in sposa all'innamorato, l'enigma di una donna, Sarvar, che viene spesso accompagnata in città, per motivi misteriosi. Non ci sono rivendicazioni sociali, alla cava, solo uomini e donne che provano a vivere e amare nonostante tutto, a darsi una speranza, ma che finiscono per sottostare a dinamiche meschine, piccole delazioni, invidie, bugie, all'insofferenza verso altri che sono schiavi come loro.
C'è un personaggio, soprattutto, che spicca in mezzo agli altri: Lotfollah, il sorvegliante. Un uomo che è nato letteralmente in quella cava, e lì è rimasto per quarant'anni a svolgere il suo compito di aiutante del capo, messaggero, mediatore. A lui spetta il compito di convocare i lavoratori per l'annuncio (arriveranno nuovi padroni, la fabbrica verrà chiusa, ora tutti devono tornare a casa) e porre fine a quella storia, che coincide con la sua vita. Lui che ha sempre avuto solo una speranza, conquistare l'amore di Sarvar, destinata a partire come gli altri, con la sua storia segreta, figlia di quel sistema di potere immutabile.
Wasteland è un film potente, che si muove sul crinale pericoloso della maniera, col suo dispositivo estetico e narrativo che sovrasta i personaggi e la realtà di quel (non)luogo, la dimensione (neo)realista, naturalista, in cui si muovono i lavoratori, nella loro vita quotidiana. Ma quel dispositivo, quello stile, è il senso e la verità di quel mondo allucinato, in cui nessuno sembra vedere l'egoismo brutale e bugiardo del padrone. Quei “quadri” elegantemente (poeticamente) disperati, quei movimenti che non lasciano scampo, soffocano e imprigionano un'umanità sconfitta, disgraziata, anche incattivita, ma che ha una dignità commovente, immersa in una ritualità laboriosa e miserabile, che approda ogni sera, dopo cena, sotto una specie di sudario. E Lotfollah è il simbolo di quella dignità, coi suoi valori istintitivi e antichi, la sua impotenza di fronte al vuoto che avanza, dentro un mondo in cui gli ultimi non riescono a vedere nell'altro un compagno di sventura, un possibile alleato, ma solo un avversario nell'eterna lotta per la sopravvivenza.