Dal 22 giugno, il nuovo film di Arnaud Desplechin, I miei giorni più belli (Trois souvenirs de ma jeunesse), distribuito dalla BIM, sarà disponibile in lingua originale e sottotitoli in italiano nei cinema di tre città - GIULIO CESARE a Roma, EUROPA a Bologna, EDISON a Parma - e sulle principali piattaforme on demand: Chili Wuaki Mediaset Premium Play Google Play TIMVISION Infinity iTunes.
Nel corso della vita talvolta capita di sentirsi esiliati da se stessi. Sono brevi episodi, in alcuni casi addirittura piacevoli, quasi ci si potesse prendere una piccola vacanza dal personaggio che ognuno di noi si è costruito negli anni. Ovviamente le cose cambiano quando la condizione di esilio è permanente e, in maniera contorta, l’esilio non è imposto ma cercato sistematicamente.
Paul Dédalus – figura ricorrente nel cinema di Desplechin, così come la maggior parte dei personaggi che popolano i suoi film, colti in una costante situazione di conflitto - torna a Parigi dopo aver trascorso diversi anni in Tadjikistan. Un problema coi documenti lo costringe a ripensare ad alcuni momenti della sua giovinezza. Il pretesto dichiarato dello scambio e della perdita di identità – ancora adolescente Paul, in gita scolastica nell’ex URSS, aveva donato il suo passaporto a un ragazzo che, grazie alle nuove generalità, avrebbe potuto raggiungere Israele – serve al regista per indagare il “cuore fanatico” di un uomo in fuga dalle sue radici – dalla madre, che soffre di depressione, dalla sua città natale, Roubaix, dal suo Paese e dalla sua lingua. Hannah Arendt diceva che la lingua di un uomo è la sua patria, e Paul Dédalus studia lingue diverse con una certa facilità, e scrive e parla di continuo. La lingua per Paul è il mezzo attraverso il quale mettere ordine, dar forma al flusso magmatico della propria vita, cercare di trattenere i ricordi e non perdersi completamente. Come la parola serve al protagonista per creare una narrazione che dia senso alla sua esistenza, così Esther, la ragazza di cui è innamorato e a cui rimarrà legato per una decina d’anni, funge da catalizzatore e contrappunto. Se in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) (1996) Paul diceva a Esther “tu es ma patrie”, in I miei giorni più belli è Esther a riconoscere Paul, a conferirgli un’identità che lui tenta di sfuggire.
Paul è un essere desiderante e il suo desiderio è costantemente agito tramite la parola. Il suo modo di amare Esther non è possedere il suo corpo o prendersi concretamente cura di lei, ma scriverle, pensarla come creatura raccontabile: solo facendo della ragazza una narrazione può creare un legame con lei e tentare di salvarsi.
Benché si tratti per molti aspetti di un film diversissimo, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson affronta una questione piuttosto simile: la narrazione come strumento di salvezza dell’identità. Nel film di Anderson il protagonista, Doc Sportello, creava in maniera paranoica un intreccio noir per mettere in salvo dall’oblio, e dalla devastazione castrante del sistema, il suo amore per Shasta e per un’epoca utopistica. In I miei giorni più belli, Paul Dédalus, a sua volta, cerca di mettere in salvo un’utopia, non tanto di un amore quanto dell’inattaccabilità di quel sentimento (e di un periodo della sua vita), poiché narrato e dunque inscalfibile, compatto: la realtà non è mai intrinsecamente logica, la narrazione che ne facciamo lo è e ci permette di creare una fortezza e custodire sensazioni che altrimenti si sfalderebbero col passare del tempo e con la distanza implacabile della razionalità. Nessuna passione, nessun amore avrebbe ragione di esistere se analizzato con la lente spietata e fredda dell’intelletto. Probabilmente nessuna vita varrebbe la pena di essere vissuta.
Il magnifico film di Arnaud Desplechin è anche un tentativo di esorcizzare la morte: non tanto quella fisica – la sequenza in cui a Paul Dédalus viene mostrato il certificato di morte del suo omonimo e, con una certa ironia, il protagonista chiosa “mi scusi, non sono abituato a leggere il mio certificato di morte” risulta piuttosto emblematica – ma quella, appunto, della propria identità. La morte, d’altronde, non sta solo in un cuore che smette di battere, ma nella perdita della propria memoria e, di conseguenza, della propria individualità.
L’inquietudine che muove il protagonista, la fuga a perdifiato da se stesso, l’esilio cercato in maniera meticolosa, lo portano a un punto di sospensione che si trasforma ben presto in punto di non ritorno, spingendolo, se non fosse per i ricordi che lo tengono ancorato, pericolosamente alla deriva, fino a svanire.
Paul Dédalus fluttua, come fosse un feto, nel liquido amniotico della sua esistenza sghemba. Ma mentre il feto, in attesa di prendere la propria identità, riceve le informazioni e il nutrimento dal cordone ombelicale, Paul, che l’identità l’ha smarrita - “io non so più chi sono” – trova il proprio cordone ombelicale in Esther e nelle parole che le dedica, come fossero fossili lì a testimoniare che lui, Paul Dédalus, nato a Roubaix nel 1970, è realmente esistito.
Sul punto di tornare in Francia, Paul Dedalus si abbandona ai ricordi: l’ infanzia, la follia di sua madre, le feste, la sua prima volta, la missione segreta in URSS, l'amico che lo ha tradito e l'amore della sua vita...