Concorso

Oro amargo di Juan Olea

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La sorprendente (da qualche stagione in qua) cinematografia cilena continua a regalarci produzioni interessanti, capaci di impressionare lo sguardo occidental-consumista e consumato con panorami estremi (e quindi, chissà quanto volontariamente, pittoreschi) e drammi ossificati ed essenziali nella loro radicale potenza apparentemente non sofisticata (pensiamo come esempio a Los colonos, 2023, impeccabile western politico nell'estremo sud della nazione, diretto da Felipe Galvez Haberle).

Oro amargo, in concorso al Bergamo Film Meeting, di Juan Olea, incrocia la durezza di un'esistenza alla ricerca della ricchezza di personaggi segnati dalla vita, alla - sto esagerando - Il tesoro della Sierra Madre, con un'attenzione tutta contemporanea all'emancipazione femminile, processo lento ma inevitabile anche laggiù, ai confini della civilizzazione urbana.

Siamo nel deserto di Atacama, nel nord del Cile, zona ricca di minerali e già teatro di una guerra ottocentesca con la Bolivia. Carola è la figlia del “padroncino” di una miniera di rame, Pacifico, impegnato tanto a gestire la piccola squadra di minatori al suo servizio quanto, celatamente, a cercare quella supposta vena d'oro di cui possiede una pepita e che darebbe una svolta alle loro vite. Ma da cuoca e unica presenza femminile, l'adolescente dovrà trasformarsi in battagliera leader e lottare per sostituire il padre, seriamente ferito in un sanguinoso scontro/duello con un suo dipendente, senza peraltro che nessuno ne venga a conoscenza.

Astenendosi dal complicare di intorbidamenti sentimentali o erotici l'asciuttezza di una storia senza divagazioni e consequenziale come una tesi, Juan Olea, autore di relativamente fresco curriculum (un altro lungometraggio, El cordero, 2014 e una applaudita miniserie tv sul boxeur cileno Martìn Vargas, 2018) staglia i caratteri di personaggi con descrizioni ben definite che paiono scolpite negli stessi minerali del deserto e della montagna in cui agiscono. Niente romanticismi o enfasi melodrammatiche, a parte i tentativi impressionanti del padre per estrarre con mezzi improvvisati la pallottola nella gamba e la presenza del cadavere in un budello in miniera. Una regia sorvegliata e intelligente che sa come la storia sappia e debba “parlare” da sola, senza didascalie o sottolineature superflue.

Battute scarne (“mal que me caga, no paga” così Pacifico liquida il suo dipendente che pure aveva ottime ragioni per abbandonare il lavoro e chiedere il dovuto), riprese en plen air che a volte riducono gli uomini a insignificanti puntini, sospesi tra la sabbia e l'azzuro chiaro del cielo. La fotografia di Sergio Armstrong, collaboratore prediletto di Pablo Larrain (No-I giorni dell'arcobaleno, 2012, Il club, 2015, Neruda, 2016), è un'ulteriore briscola in quello che imdb definisce con ampia elasticità di giudizio un dramma western: si notino ad esempio le riprese notturne col fuoco che manda significativi riflessi di bronzo e oro sui volti, tra cui, espressivi, quelli dei due protagonisti, Katalina Sanchez e l'ascetico Francisco Melo.