Di origine sami, diplomato in regia alla Norwegian Film School, autore di moltissimi cortometraggi e video musicali e pubblicitari, Egil Pedersen debutta nel lungometraggio con Biru Unjarga (My Fathers’ Daughter), un film al quale pensava e lavorava dal molti anni (una decina) e nel quale racconta le crisi e i conflitti di identità di un’adolescente appartenente alla comunità sami, i lapponi, che vive in Unjarga, una regione della Norvegia settentrionale abitata da molti sami: Elvira, quindici anni, una mamma lesbica la cui compagna è appena andata a vivere con loro, un villaggio dove le case si perdono in mezzo al paesaggio luminoso e piatto. Sua mamma ha raccontato a Elvira di averla concepita in Danimarca in una clinica per la fertilità, ed Elvira si è convinta che suo padre, il donatore, sia Nikolaj Coster-Waldau, star del cinema non solo danese, celeberrimo soprattutto per la parte di Jaimie Lannister nella serie Il trono di spade. Bellissimo, cool, il padre che ogni ragazza vorrebbe avere, che Elvira immagina accanto a sé in carne e ossa, intento a consigliarla. Attraverso questo padre ideale, rivendica la propria parte di natura danese e sogna di andarsene da quel paese smorto, noioso come lei considera tutta la cultura e la vita lappone. Non le va di essere sami, finché una mattina non appare una tenda montata a qualche metro dalla loro casa e dalla tenda emerge un ragazzone meno bello e più tozzo di Coster-Waldau e decisamente lappone: il vero padre di Elvira, appena uscito dal carcere, che rivendica il suo diritto alla paternità, a conoscere sua figlia e a insegnarle le cose che lui conosce (quasi tutte vietate a una minorenne), come guidare la moto o andare nella discoteca nel capannone in mezzo al nulla.
Coming of age in un ambiente insolito, nel quale il malessere e gli interrogativi della crescita si mescolano con le contraddizioni, di genere, razza, status, abitudini, caratteri. I social si rivelano talvolta una trappola, nel cui inganno cadono non solo i ragazzini ma anche gli insegnanti, e le fanciulle bionde di pura razza norvegese possono essere molto sgradevoli, pretenziose “influencer” (tali si definiscono) che regalano o tolgono la propria amicizia a seconda dell’interesse che l’amica può suscitare: quanti followers vale un’amica sami? E un’amica lesbica? Sara Olaussen Eira è brava e ha la faccia giusta, non è mai leziosa ma nemmeno travagliata; è giusto una ragazzina dubbiosa e curiosa; suo padre è maldestro, sua madre ha la giusta, ragionevole distanza ma sta ancora indagando sulla propria identità sessuale, il suo migliore amico, un ragazzino biondo e serio, idolatra Karl Marx, lo legge e lo cita continuamente.
Affettuoso, lucido ritratto di un ambiente, di una cultura, di un paesaggio e di un piccolo paese, di un gruppo di ragazzi e di qualche adulto, il film procede con il passo leggero della commedia, non si getta mai a capofitto nelle situazioni o spiegazioni drammatiche, anche se le sfiora spesso; se il disadattamento c’è (e non può non esserci, data anche l’età della protagonista) non deflagra mai. Anzi, sì, deflagra, ma con misura, con scarsi danni e con qualche certezza in più.