Con i suoi 197 minuti il terzo Avatar – Fuoco e cenere batte in durata il record dei 162 sia del primo Avatar del 2009 (rimpolpati di edizione speciale ed estesa fino all’ammontare rispettivamente di 168 e 170 minuti), sia del secondo Avatar – La via dell’acqua, che si è attestato sui 192. Ma gestirli, oltre che accumularli e quindi calcolarli e quantificarli come presunto e muscolare valore d’autore, è tutta un’altra cosa: oltretutto con gli occhialini per l’effetto tridimensionale che James Cameron titanicamente tiene in vita dopo aver dato impulso alla stagione ormai oltre quindici anni fa. Lo spettatore che opta per la versione non bidimensionale sa che, nell’eccezionalità odierna del 3D, l’effetto sorpresa è assicurato per almeno un quarto d’ora di proiezione, e per abbandonarsi a circoscritti momenti spettacolari ben accetti. Poi però l’impressione dell’attrazione pura si esaurisce, soffocata da un’esigenza narrativa dal passo pesante, puntigliosa nel voler allacciare tutti i fili, chiosare, clonare episodi, personaggi e situazioni, e qui l’impresa si complica. Le opzioni diventano due: 1) provare a togliere e rimettere gli occhiali, per apprezzare il potenziale vero effetto speciale dell’immagine sfasata, poiché tale sarebbe stata la vera novità del sequel ulteriore, che prelude a un quarto e quinto capitolo, se gli incassi lo consentiranno, quale unico parametro dell’ex arte cinematografica contemporanea; 2) tenerseli inforcati e lasciare che l’azione scorra, tra una scena madre e l’altra concatenate con il cemento in tutti i sensi armato, ben sapendo tutto in anticipo e nella piena consapevolezza che dal buio della sala non si esce finché non saranno stati sciolti i principali nodi drammaturgici, lasciandone aperto giusto qualcuno in attesa delle prossime puntate.
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Avendo già inaugurato in questo sito una rubrica dal titolo I calcinacci, ecco profilarsi una terza possibilità, onde evitare di ricorrere allo stratagemma del guardare nel frattempo altrove, piuttosto i calcinacci nelle vecchie sale fatiscenti o i controsoffitti in quelle odierne: stare fino in fondo al gioco del film, seguirlo davvero con cognizione di concausa; e comprendere attraverso qualche indizio incastonato nella trama sovrana la morale della favola che intercetta questioni geopolitiche ad ampio raggio, quindi globalizzata la produzione cinematografica corrente e preponderante come ruota di scorta e diffusione sottoculturale a tappeto su scala. C’è una battuta infatti pronunciata dal padre puffo Jack Sully, precedentemente umano: stanco del continuo dissenso familiare e filiale ribadisce che la sua è una famiglia, non una democrazia. E, come avrebbe detto un personaggio di Mi manda Picone, qui casca l’asino; si recupera il sottotesto complessivo che rende la visione utile e insostituibile, contro ogni tentazione forte di godersi piuttosto altri elementi dell’arredamento nella platea oscurata o la sovrapposizione di piani sfasati, quale unico originale modo di concepire oggi il cinema quale provocazione e autentico cupio dissolvi del proprio non-essere digitale. Dire che la famiglia non è una democrazia lascia intendere perché tanti film, possibilmente sovradimensionati anche in termini di minutaggio, investano sul familismo come tema e tendenza che depista e comporta la distrazione di massa dalle istanze democratiche, infatti calpestate nella realtà da emergenze perpetue e guerre ovunque, con investimenti congiunti di alta tecnologia spettacolare sulla pelle delle persone bombardate. Proprio come nei film e in Avatar – Fuoco e cenere in particolare.
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A Cameron la guerra “piace”, a dispetto della conclamata “pace”; e su questo, complice una vocale ballerina, non c’è dubbio, da quando quarant’anni fa militarizzò la saga di Alien con Aliens – Scontro finale, dopo aver scritto Rambo II – La vendetta. Gli piace talmente tanto da confondere già da Avatar il verde lussureggiante della natura computerizzata con quello militare delle divise e delle mimetiche dei nemici dei puffi tribali e fanta-primordiali. Le armi sono l’equivalente anche cromatico e concettuale delle creature in estinzione abissali e marine, a un passo dall’azione dei “marines” grigioverdi e o di quelle anfibie che in Avatar – Fuoco e cenere più che mai non stanno un minuto senza imbracciare un mitra, un lanciafiamme o un qualche altro ordigno, con buona pace della pace. Fremono tutti per combattere con la tecnologia più letale disponibile, con le migliori o peggiori intenzioni, non fa differenza, perché sempre sbagliate sarebbero in una vera cultura della nonviolenza, quindi pacifista. E lo fanno, bene o male, per la famiglia. Tengono tutti famiglia anche qua. Così sul pianeta si reitera la fiaba del nucleo domestico da preservare con il fuoco di fila e la cenere delle macerie, per un ammontare attuale di quasi dieci ore di proiezione dilazionata in trilogie, alla George Lucas, Peter Jackson, con modalità triadica e un tempo dialettica, per così dire hegeliana. L’importante è accorgersene, tenere sul naso quelle lenti conformanti alla deformazione ideologica dei legami familiari, quindi guerrafondai camuffati; senza cioè distoglierle un istante, come l’attenzione, e farsi prendere per il naso, con occhi oramai convertiti alla religione del conflitto permanente di marines vecchi e nuovi, rosa e blu.
In seguito alla devastante guerra contro la RDA e alla perdita del loro figlio maggiore, Jake Sully e Neytiri affrontano una nuova minaccia: il Popolo della Cenere, una tribù violenta e assetata di potere, a cui si unisce il redivivo colonnello Quaritch. La famiglia di Jake dovrà nuovamente lottare per la propria sopravvivenza in un conflitto che rischia di mettere a repentaglio tutte le forme di vita su Pandora.