È costante nei film di Karim Dridi (64 anni, arrivato con questo Fainéant-es al suo decimo lungometraggio) l'interesse per i temi delle differenze culturali e delle disuguaglianze sociali: al loro intrecciarsi come causa di conflitti ma anche come origine di crescita interiore per chi le osserva con occhio attento e ne considera gli aspetti umani che entrano in gioco nella dialettica reciproca. Fainéant-es è in tal senso esemplare: guardandolo è impossibile non andare con la memoria a Senza tetto né legge di Agnès Varda e alla partecipazione con cui si accostano alla condizione di marginalità sociale registi come Ken Loach o Mike Leigh; Dridi lavora con precisione e sensibilità nell'accostare gli elementi di cinéma verité a quelli, pur presenti, di fiction più elaborata e quindi sottoposta alla necessaria direzione degli interpreti (anche quando non professionisti) e alle scelte di sguardo (inquadrature, montaggio) funzionali alla giusta interazione emotiva dello spettatore. Per trovare la chiave con cui abbinare la giusta distanza dal soggetto del film, importante per definirne la forma, all'empatia che generi per il pubblico la possibilità di accostarvisi annullando gli inevitabili pregiudizi.
La struttura del film è quella di una ballata picaresca, le cui strofe corrispondono ai singoli episodi del racconto di erranza che vede le due protagoniste, Nina e Djoul, dapprima insieme, poi divise ognuna a seguire un proprio itinerario in seguito a una lite, per ritrovarsi infine riunite a riprendere il loro vagabondaggio senza una vera meta, sul camion arrangiato a camper che fa loro da casa. E come avviene per questo genere di ballate, non ci si deve formalizzare se i fatti a volte non sono ben spiegati nel loro legame logico o cronologico; se a volte la casualità vince sulla consequenzialità; se alcuni cambiamenti di “tono” sembrano contraddittori o, perlomeno, un po' precipitosi. L'esistenza di queste due punk dure e pure, indomabili e refrattarie a ogni cedimento in favore di stanzialità e sicurezza è un susseguirsi di incontri, di azioni a volte sconsiderate, a volte illegali, sempre sostenute da una disarmante sincerità di intenti all'insegna di una moralità anticonvenzionale che predilige il sentimento al calcolo, il desiderio della festa continua all'accettazione del lavoro e delle sue regole come stato permanente.
Tutto ciò non significa che Dridi abbia semplicemente voluto proporci l'agiografia di queste due ribelli senza causa. Non ci viene nascosto nulla delle sgradevolezze e dei rischi insiti in questa esistenza, tanto scelta quanto subita senza soluzione di continuità. Non è un caso che il racconto inizi su un cellulare della polizia e ci conduca nel prefinale a un nuovo scontro con i poliziotti; e nella ricerca panica di vita senza costrizioni, su cui fa leva nel suo svolgimento, non manca l'incontro con la morte come dato incontrollabile e inevitabile.
Così come ci avvicina progressivamente alle due protagoniste e agli altri marginali più o meno facenti parte di quello che potremmo definire come movimento punk, il film ci costringe a riflettere sul senso del termine “libertà”, ma lo fa evitando ogni peloso moralismo foriero di paure e di condanne, a favore dell'accettazione del fatto che ci sia una categoria di persone per la quale l'idea di libertà no direction home possa corrispondere a una condizione in un certo senso fanciullesca – e per questo perennemente caratterizzata da una fragilità senza protezione – a suo modo ammirevole.