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Christian Petzold (Hilden, Germania, 1960), esponente di punta della “scuola di Berlino”, è il regista a cui il 43^ Bergamo Film Meeting ha dedicato una sezione di Europe, Now!, permettendoci di rivisitarne l’opera. Che parte da un lavoro sui generi e da riferimenti letterari e cinematografici per scavare innanzitutto nella storia tedesca, poi in questioni più psicologiche ed esistenziali. Vediamo come.

LA STORIA, I RICORDI, LO SVOLGERSI DEL TEMPO. E DELLE VITE.

Il cinema di Petzold è intimamente legato alla storia, quella, in primis, della Germania del ‘900, e il passato è la dimensione che il regista indaga maggiormente: un passato da cui non si può prescindere, anche quando lo si vorrebbe; che inesorabilmente ritorna. Forse perché non si può fuggire da se stessi. In Die innere Sicherheit (The State I Am In, 2000), il lungometraggio d’esordio, il riferimento è al terrorismo tramite l’osservazione delle conseguenze che può avere una scelta di quel tipo, su una figlia adolescente, che appartiene peraltro a una generazione che disdegna la politica, o che non se ne vuole occupare. La protagonista di Yella (2007), invece, si reca ad Hannover da una cittadina dell’Est per sfuggire al marito violento e lì incontra un altro mondo, quello dell’alta finanza corrotta quindi del capitalismo avanzato di quegli (e di questi) anni, mondo che fa da contraltare a quello di Jerichow (2008), ambientato in una cittadina del Nord-Est in cui un immigrato turco che è riuscito ad arricchirsi si scontra con la donna che l’ha sposato per denaro e con l’uomo che ne è diventato l’amante, un reduce dell’Afghanistan che patisce la miseria del ritorno dalla guerra. Ma è soprattutto nella “trilogia sull’amore al tempo dei sistemi oppressivi” che si vede quanto la storia sia, per Petzold, il quadro entro cui si dipanano le vite umane. Barbara (La scelta di Barbara, 2012) ci porta in un paesino intorno a Berlino nel 1980, quindi nella DDR, con la Stasi in piena azione nei confronti, in questo caso, della protagonista, un’ex detenuta per motivi politici che sta progettando la fuga all’Ovest; Phoenix (Il segreto del suo volto, 2015), dedicato a Fritz Bauer, è ambientato nella Berlino del secondo dopoguerra con la protagonista, un’ebrea alto-borghese, che è sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e che, quando ne esce, cerca (e trova) il marito che l’aveva fatta arrestare; in Transit (La donna dello scrittore, 2018) l’ambientazione storica del romanzo di Anna Seghers, che racconta la retata del 1940 nella Francia appena occupata dai nazisti, viene attualizzata per raccontare la necessità di fuga da Parigi prima, da Marsiglia poi, di oppositori di vario tipo (clandestini, migranti, rifugiati…), che vengono rastrellati dalla Polizia.

IL TEMPO MA ANCHE LO SPAZIO: LUOGHI E NON LUOGHI, PASSAGGI, TRANSITI

Anche Undine (Undine - Un amore per sempre, 2020), che è un film intimo e d’atmosfera, lontanissimo dal modello del film storico-politico, racconta la storia di Berlino prima e dopo la caduta del Muro, attraverso il plastico che la protagonista illustra ai turisti in visita; e con questo entriamo in un altro tema, perché come il tempo è essenziale nei film di Petzold, allo stesso modo lo è lo spazio, che sembra generare le situazioni; dallo spazio aperto, a volte naturale dei primi film, dato da parchi, giardini, campi e campagna, mare (Die innere Sicherheit, Wolfsburg, Jerichow) a quello chiuso, soffocante, in cui si muovono le protagoniste di Yella, di Barbara e di Phoenix. Per non parlare dello spazio di Roter Himmel (Il cielo brucia, 2023), casa, spiaggia e foresta, e il fuoco intorno. Spazio di alberghi, di porte e di finestre, luoghi e non luoghi legati al tema del viaggio e dello spostamento – il transito del film omonimo, il vagabondare per le strade di Berlino (che però sembrano viottoli) delle protagoniste di Gespenster (Ghosts, 2005), le corse a vuoto in auto di Wolfsburg (2003), le sparizioni (cambi di luogo) della protagonista di Toter Mann (Something to Remind Me, 2001), i continui, obbligati spostamenti dei protagonisti di Die innere Sicherheit, la fuga vana di Yella e quella non realizzata di Barbara nei film omonimi e, soprattutto, la fuga drammatica di Transit. Falsi movimenti.

 

UOMINI, ANZI DONNE, SENZA PASSATO (E SENZA FUTURO), O DELLA PRECARIETÀ ESISTENZIALE

Ci addentriamo, così, in un altro motivo ricorrente nell’opera di Petzold, quello di personaggi che sono spesso spiantati, deboli, indifesi e che ancora più spesso arrivano da qualche strano altrove, come se non avessero un passato; in un senso forte di precarietà esistenziale, che richiama il titolo del primo film e che si lega a una dichiarazione del regista, che il cinema sia un'enorme collezione di persone “non redente”. Quasi sempre le sue protagoniste sono donne (perché, come diceva Chabrol, gli uomini “vivono” mentre le donne “sopravvivono”), Nina Hoss e, da Transit, Paula Beer, entrambe vincitrici di un Orso d’argento a Berlino.

PROBLEMATIZZARE L’OVVIO, O DELLA COMPLESSITÀ

Questi personaggi incerti e spesso misteriosi, enigmatici come le situazioni che si trovano ad affrontare, contribuiscono a creare quel senso di complessità/ ambiguità/ non detto che nei film del regista significa problematizzare, sfaccettare l’ovvio, dargli nuove chiavi di lettura. In senso anche filosofico. Per questo si può citare Transit ma soprattutto Undine e Roter Himmel, i cui personaggi si muovono nelle sfumature e si lasciano sfuggire ciò che la vita offre loro, salvo magari riscattarlo sul piano letterario, raccontando quello che (non) hanno vissuto. Personaggi che si trovano ad accogliere ciò che la vita casualmente offre o che invece, queste occasioni del caso, non le sanno afferrare, o le afferrano tragicamente.

LE AUTO, GLI INCIDENTI, LA CASUALITÀ 

E quindi, il caso. Che come in Kieślowski domina la realtà della vita. E che mette anche di fronte a delle scelte di tipo morale. La possibilità di scrivere e riscrivere la realtà, di distinguerla (o meno) dalla finzione, di sostituzioni ed incidenti, di sopravvivenza e morte, o di morte tout court (quanti suicidi, in questi film). Le possibilità, gli scarti. Emblematico è in questo senso Phoenix, in cui fino all’ultimo non sappiamo cosa la protagonista deciderà, e fino all’ultima scena suo marito non “comprende” (unico) la verità.

L’AMORE IRREALIZZABILE, LA TRAGICITÀ DELLA VITA

È anche, questo, uno dei film sull’amore irrealizzabile anzi non più realizzabile, come del resto Die innere Sicherheit, Jerichow, Wolfsburg, Gespenster, Transit e soprattutto Toter Mann, l’opera che riprende Hitchcock per parlare di un avvocato che cade vittima, inconsapevole, della sete di vendetta di una donna che capita “per caso” sul suo cammino. L’amore che si intreccia con la morte e con stati di non vita, sonno, sogno fino al caso di Undine che, dopo il massaggio cardiaco, può “rianimarsi” e quindi amare, da creatura mitologica che era. E ridare la vita all’amante, con il sacrificio di sé.