La mia famiglia a Taipei si apre con un trasloco, con l’ingresso delle protagoniste nel nuovo appartamento in città: un momento allo stesso tempo carico di aspettative e tensioni. Come in Nobody Knows (Dare mo shiranai, 2004) di Koreeda Hirokazu, si tratta di una famiglia disfunzionale (là erano quattro giovanissimi fratelli e la madre che di lì a poco li avrebbe abbandonati, qui sono una madre sola e due figlie, di cui la seconda di appena cinque anni), in un contesto socioeconomico difficile.
Shu-Fen arriva a Taipei con la figlia ventenne I-Ann e la piccola I-Jing, apre un chiosco di noodles nel mercato notturno della città, mentre la figlia maggiore inizia a lavorare come ‘betel nut girl’ in un chiosco (ragazze che vendono noci di betel o sigarette con atteggiamenti provocanti, un fenomeno a Taiwan, ripreso in diversi film). La vita non è facile, ai problemi economici si aggiungono quelli relazionali e anche spettri del passato che tornano a tormentarla.

I legami familiari possono rivelarsi difficili da classificare, lo sguardo della regista, con chiari rimandi alla New Wave taiwanese, ne indaga la forza al di là della forma e rende l’intensità leggera del nucleo familiare di Shu-Fen nel quadro di un contesto sociale disagiato, di persone ai margini, che lottano ogni giorno per sopravvivere in un Paese stretto tra modernizzazione e zavorre del passato. Il retaggio culturale è onnipresente: quella mano ‘del diavolo’ sintomo di oscuri presagi che il nonno riconosce, rifiuta e probabilmente teme, e che la stessa I-Jing tenta di nascondere, ma che assurge per la bambina a segno di potere (siccome è la mano del diavolo che rubacchia, non lei, si sente autorizzata a farlo) trasformandosi però anche in fonte di dolore (quando è la stessa mano a lanciare la palla al suricato che muore per raggiungerla e riportarla alla padrona).
La mia famiglia a Taipei è un accorato racconto di donne. Se il titolo internazionale The Left-Handed Girl si concentra sulla piccola e sorprendente I-Jing interpretata dalla giovanissima Nina Ye (sugli sguardi freschi ma perplessi, sulle domande che si inseriscono come lame nel tessuto dei dialoghi degli adulti, sull’accenno di passi di danza che illuminano la scena), nell’evoluzione della storia le altre protagoniste acquistano spessore. Shu-Fen è una figura di madre dolente dall’espressione malinconica, che si aggira negli spazi del piccolo chiosco nel mercato notturno così come nella vita portando sulle spalle pesi e responsabilità dei quali non riesce a liberarsi, in un contesto patriarcale che penalizza le donne in ogni modo. I-Ann sembra a suo agio nel lato oscuro, ma man mano si disvela personaggio complesso e sfaccettato. L’espressione decisa che propone nelle vesti di una spregiudicata ‘betel nut girl’ si stempera negli sguardi liberi che si spingono oltre i confini dell’inquadratura, mentre, come in un riflesso del cinema di Tsai Ming-liang, sfreccia con il motorino per le strade della metropoli. E poi la nonna che vive sul filo dell’illegalità come un’equilibrista, infine Taipei, protagonista essa stessa e guscio materno non esattamente protettivo, che avvolge con le sue luci e ombre le vite delle sue figlie.

Il film, premiato alla Festa del Cinema di Roma 2025, riecheggia le atmosfere care a Sean Baker – il regista che si è aggiudicato di recente Palma d’Oro a Cannes e Oscar per il suo Anora, con il quale Shih-Ching Tsou aveva già collaborato e co-diretto nel 2004 Take Out, qui in veste di co-sceneggiatore, montatore e co-produttore –, in un racconto non privo di ironia di un universo ai margini, che in questo caso viene colto dallo sguardo di una bambina. I-Jing corre nei corridoi dell’immenso mercato notturno che la accoglie seguita dalla macchina da presa (per gran parte delle riprese è stato utilizzato un Iphone), osserva dubbiosa le dinamiche adulte della propria famiglia, le sue domande ingenue colano come un balsamo inatteso nel gioco al massacro delle discussioni animose dei parenti, infine accenna piccoli passi di danza con il suo entusiasmo infantile. La mia famiglia a Taipei è il racconto di vite in un universo complicato, affrontato a tratti con leggerezza, ma non senza spunti profondi.
La famiglia della piccola I-Jing torna a Taipei dopo diversi anni. Mentre la madre single fronteggia i debiti gestendo un chiosco in un vivace mercato notturno e la sorella maggiore contribuisce con un lavoretto part-time, la bambina esplora con meraviglia la nuova vita cittadina: le strade, le bancarelle, le luci della metropoli. Ma perché disegna con la mano sinistra? Il nonno non vuole, dice che quella è una mano malvagia. Questo singolare divieto darà il via a una serie di vicende incredibili e inaspettate