Cristi è un poliziotto di Bucarest di mezz’età, non è sposato, non ha figli e non nutre troppa passione per il proprio lavoro. Quando gli capita l’opportunità di fare soldi con il traffico di droga non ci pensa due volte e si lascia facilmente corrompere. Le conseguenze del suo gesto lo spingono però verso una serie di pericolose vicissitudini fra la Romania e la lontana isola di La Gomera nelle Canarie: con una femme fatale da film noir anni ’40, una banda di trafficanti spagnoli comandati da un boss da romanzo e i colleghi della polizia romena che gli danno la caccia senza alcuno scrupolo.
Porumboiu dice di aver pensato a La Gomera – L'isola dei fischi partendo da uno spunto molto preciso: quello del linguaggio dei fischi. Ovvero un curioso alfabeto fatto zufolando le sillabe delle parole che gli abitanti delle Canarie utilizzano da secoli per comunicare a grande distanza e che nel film è usato dai trafficanti di droga per scambiarsi messaggi evitando le intercettazioni della polizia. L’idea, che il regista aveva in mente sin dai tempi di Police, Adjective (2009), è in effetti molto interessante e potrebbe lasciar intendere che il film stia dalle parti della cinematografia più identitaria di Porumboiu e rifletta sui comportamenti, i retaggi culturali e sociali e i modi di agire di una comunità o di un gruppo di persone a partire dal modo in cui comunicano e stanno insieme. E che da lì arrivi a dire, sottilmente, anche qualcosa di molto preciso sui processi storici e le loro implicazioni con la contemporaneità.
Invece niente di tutto questo. Il regista romeno decide con La Gomera di esplorare territori nuovi in senso sia estetico sia narrativo, ma anche di provare a pensare a un cinema e uno stile altro. Il tentativo è quello di costruire un pastiche nel quale far confluire diversi livelli di immaginario: dalla cinefilia più esplicita e pop, agli stereotipi dei generi classici, fino a un contrappunto musicale che spazia da Iggy Pop a Casta Diva. Puro godimento metatesutale e metalinguistico che però, ben presto, si attorciglia su se stesso. Il risultato è infatti un ibrido che non approda a nulla se non al piacere di riconoscersi in se stesso e nella strizzata d’occhio al pubblico meno smaliziato.
Una specie di opera postmoderna fuori tempo massimo che, nonostante un ritmo coinvolgente e diverse trovate indovinate, sembra divertire più chi fa che chi guarda. Il lavoro con i generi – ci sono la commedia, il polar, il thriller e un accento di western – non ha mai il giusto grado di mediazione e si spreca in un miscuglio di cliché e situazioni narrative che mal si abbinano al tessuto filmico. Mentre le citazioni cinematografiche – Gilda (1947), Sentieri Selvaggi (1956), Psyco (1960) – sono talmente esplicite e smaccate da risultare quasi infantili. Del resto nemmeno il côté hitchcockiano che vorrebbe ammantare il film di un registro noir virato allo humour nero riesce a togliere la sensazione che La Gomera non sia nulla di più di un grosso e costoso divertissement del quale quasi nessuno, Porumboiu compreso, conserverà memoria molto a lungo.
Cristi, un ispettore di polizia di Bucarest, s’imbarca per l’isola di La Gomera, nelle Canarie, per imparare in fretta il Silbo, un linguaggio fischiato che i contadini del luogo utilizzavano tradizionalmente per parlarsi da un luogo isolato all’altro. Ma il poliziotto è determinato a utilizzare quel codice, segreto ai più, per ben altro scopo: liberare un mafioso rumeno dalla prigione ed entrare in possesso di un’ingente somma di soldi sporchi. Uno sbirro corrotto, una manciata di milioni, una superiore algida e rossa di capelli, che sospetta di Cristi e non vede l’ora di entrare nella truffa per avere la sua parte, un criminale da favorire e una femme fatale fatta apposta per scombinare tutti i piani.