Il fondamentalismo biblico ha dalla sua un immaginario che raramente incontra il cinema: ma quando succede l’esito è, per rimanere in argomento, manna caduta dal cielo. Sullo schermo piomba una visionarietà cruenta e crudele, estrema e allucinata – la stessa che Mel Gibson aveva avuto già modo di sperimentare nel controverso La passione di Cristo e che ora, in La battaglia di Hacksaw Ridge, viene declinata al genere bellico.
Ricostruendo una storia di eroismo che ha per teatro la seconda guerra mondiale, il regista filma le trincee e i combattimenti sul fronte giapponese con l’impeto visivo di un predicatore, facendo di Okinawa un inferno in terra, un’odissea di sangue, dolore e fango quale raramente si è vista al cinema, che pure con quel conflitto ha da sempre una certa dimestichezza.
Vista dal pulpito di Gibson, la guerra è un affresco di spaventosa eloquenza visiva, capace da sola di portare – al netto di ogni chiacchiericcio umanista - sul fronte del pacifismo chiunque abbia idee confuse al riguardo. Il tutto viene poi rinforzato da una vicenda, realmente accaduta, di eroismo anomalo, quella di un soldato americano che, forte delle proprie convinzioni religiose, si rifiuta di imbracciare e utilizzare armi, non volendo però nello stesso tempo rinunciare ad arruolarsi e fare la sua parte, come infermiere.
Come già in un ottimo film di guerra uscito un paio di anni, Fury, la parabola dell’eroismo prevede stadi preliminari di mortificazione (nella fase dell’addestramento) e successivi di riscatto e glorificazione, quando, durante la battaglia, il protagonista forgia il proprio eroismo prodigandosi per curare e salvare i commilitoni. Nel momento preciso in cui l’epica americana dell’uomo qualunque che si fa eccezionale incontra l’immaginario granguignolesco di Gibson, La battaglia di Hacksaw Ridge smette di essere un film qualunque e diventa un film eccezionale.
E anche, al contempo, un film il cui retroterra ideologico merita qualche riflessione. Perché Gibson dagli archivi della seconda guerra mondiale ha riesumato una vicenda di fondamentalismo religioso umanitario, la storia di un uomo che ascoltando il suo Dio si prodiga a favore della vita e non della morte, per salvare vite umane e non per uccidere. Mossa ideologica che vuole evidentemente tracciare una distanza con altri fondamentalismi, com’è peraltro lecito attendersi da un cineasta tutt’altro che progressista. E che finisce però anche per rimescolare le carte del dibattito fra interventismo e pacifismo, descrivendo un personaggio che va in trincea mosso dal desiderio di arginare i danni inflitti della guerra all’uomo, non di contribuirvi. Un medico senza frontiere ante litteram, verrebbe da definirlo; o piuttosto, un uomo di pace che non osteggia la guerra ma la abita, addirittura la rincorre, quasi fosse quello il suo destino.
La storia vera di Desmond Doss che, a Okinawa, durante una delle più cruente battaglie della seconda guerra mondiale, salvò 75 uomini senza sparare un solo colpo. Convinto che la guerra fosse una scelta giustificata, ma che uccidere fosse sbagliato, fu l’unico soldato che in quel conflitto combatté in prima linea senza alcuna arma. Doss fu il primo obiettore di coscienza insignito della Medaglia d’Onore del Congresso.