Shooting Ourselves di Christine Cynn (co-regista di The Act of Killing) è un documentario che riprende lo svolgimento, la preparazione e la costruzione di Situation Rooms, una video-installazione teatrale progettata dal collettivo di artisti Rimini Protokoll con l’obiettivo di far vivere allo spettatore un’immersiva esperienza audio-visiva incentrata sulla guerra e sulle conseguenze dei conflitti armati. Nello specifico, Situations Room raccoglie venti persone proveniente da tutto il mondo le cui biografie sono state distrutte, alterate e compromesse dall’economia globalizzata della guerra nelle sue numerose espressioni: alcune tra loro sono coinvolte nel commercio delle armi, altre nella costruzione di ordigni e altre ancora hanno dedicato la propria esistenza a combattere per dare vita a nuove ostilità oppure per farle cessare. L’idea di Rimini Protokoll è quella di raccogliere le storie di questi individui e di collocarle in un edificio con più stanze interconnesse tra loro: ogni racconto avrà un proprio ambiente, fisicamente separato dagli altri ma facente parte di una stessa struttura. Ciò che si crea è una grande casa con più stanze dove, in ogni locale, abita il racconto autentico di una persona, punto di vista singolare che è connesso solo a livello tematico ed emotivo con quello degli altri. Il collettivo di artisti ha donato ad ogni persona un Ipad chiedendo a ciascuno di riprendere, mediante una soggettiva amatoriale, la propria stanza arredata e organizzata in modo da rappresentare in modo veritiero un luogo caro e importante (per esempio, vediamo la cucina di una signora che era impiegata in una fabbrica di missili, la cameretta di un bambino soldato, la sala riunioni di un diplomatico pacifista, la cabina di pilotaggio di un pilota di droni ecc.). L’obiettivo è quello di decostruire lo spazio architettonico del conflitto armato: il teatro di guerra non è più confinato in un luogo unico e preciso ma, nel suo differenziarsi, vive in ogni luogo dell’installazione seppur in forme, contenuti e punti di vista differenti. Così facendo, quella che riteniamo essere l’immagine monolitica e stereotipica della violenza militare si frammenta in una pluralità virtuale che abita ogni spazio, trasformandolo e trasformandosi: essa assume il volto di un carnefice, di una vittima, di un politico, di un economista, di un medico, di un pacifista che nulla hanno in comune se non l’essere inglobati nel medesimo, eterogeneo orizzonte nichilistico.
In quest’ampia e complessa ricostruzione, anche al visitatore viene consegnato un Ipad sul quale può vedere una sola delle venti storie: dovrà quindi spostarsi per la stanza, ripercorrendo i passi della persona assegnatagli, ascoltando il suo racconto e vivendo le sue emozioni, seguendo cioè un percorso meta-esperienziale che lo porta a una completa e totale identificazione.
Shooting Ourselves amplifica la portata visiva e filosofica del progetto Situation Rooms. Affascinata dall’installazione, Cynn decide di riprenderne l’esecuzione e la progettazione ponendo il proprio sguardo in quell’infra che, come d’altronde avveniva anche in The act of killing, non è né finzione né realtà bensì la sintesi negativa di entrambe. Il risultato è un documentario atipico che oscilla continuamente tra la costruzione del setting del progetto artistico, lo svolgimento delle riprese, le interazioni spontanee tra i venti partecipanti al progetto, la relazione tra il materiale girato per la realizzazione di Situation Rooms e quello necessario a Shooting Ouselves. Ciò che si crea è un’incredibile proliferazione di schermi, di monitor, di sguardi: in ogni inquadratura, vi è sempre la compresenza di più immagini che sfumano la barriera dell’essere-finto della rappresentazione fino ad annullarne l’effetto di reale.
Si tratta di un’operazione coraggiosa che dona all’immagine un nuovo statuto. Da sempre compresa tra il modello mimetico-speculare (immagine come specchio della realtà) e quello rappresentativo-effettuale (immagine come prodotto artificiale completamente altro rispetto al mondo), l’immagine cinematografica non è mai riuscita a prendere le distanze dal suo essere simulacro o feticcio. Esaltando la propria vocazione intertestuale, Shooting Ourselves inaugura una realtà nuova in cui l’immagine cessa di essere un segno del mondo per divenirne un suo oggetto, una sua parte. Essa si sgancia da ogni rapporto col referente e, smarrendo la presunta identità rappresentativa, si impone come presenza autonoma che intrattiene un rapporto allo stesso tempo cosale, personale e virtuale con lo spettatore. È un’immagine che confonde la realtà con la sua rappresentazione fino ad entrare nell’ambiente e nel vissuto del soggetto il quale, smarrito da una stratificazione visiva tanto seducente quanto spaventosa, non può fare altro che abbandonarsi al sex appeal dell’inorganico, alla fascinazione di una copia della copia.
Il risultato è un’iconografia sinottica la cui ecologia si articola su quattro differenti livelli. Il primo è quello relativo alle riprese che consentiranno di effettuare il percorso al fruitore della videoinstallazione; lo spettatore osserva, grazie alla camera della regista, la vittima della storia di guerra che percorre, con l’Ipad e auto-registrando le proprie gesta, quello che sarà il futuro percorso del visitatore, narrando la propria storia e ricostruendone verbalmente i luoghi a lui cari. Il secondo livello trasferisce il punto di vista da esterno a interno; l’immagine non mostra più la ripresa di una ripresa ma il filmato stesso girato da uno dei protagonisti dell’installazione: tramite soggettive tipiche del mondo videoludico lo spettatore osserva con gli occhi della vittima il percorso all’interno delle Situation Rooms, entra nella sua vita, vive la sua simulazione. Il terzo livello effettua uno scarto sulla rappresentazione per fissare la totalità rappresentativa. L’inquadratura è quella che compare su altri schemi e su altri tablet: capita, infatti, che l’immagine venga registrata da altri partecipanti all’installazione esterni alle riprese di Shooting Ourselves. Infine, il quarto livello è quello dell’elaborazione cognitiva: lo spettatore si rende conto di star osservando un’immagine polimorfa, metamorfica e sceglie dove collocarsi, a cosa dare importanza e che spazi riempire.
Ciò che accomuna i quattro livelli è la dispersione abissale del campo visivo dove lo schermo cinematografico da barriera che separa, diviene una membrana semipermeabile che lo spettatore è in grado di oltrepassare, collocandosi così in uno spazio liminare, di confine tra la realtà e rappresentazione. Sebbene anche in altri lavori recenti la profusione disordinata di immagini e schermi fosse un dato caratteristico (penso, per esempio, ad Austerlitz di Sergei Loznitsa o No Home Movie di Chantal Akerman), ciò che contraddistingue Shooting Ouserlves è che essi escono dalla dimensione silente di significanti per divenire significati: nella sua totalità frammentata, l’immagine impressa non è più uno strumento con cui si guarda il mondo ma una possibilità modale d’esistenza e di fruizione, un principio di organizzazione dell’universo visuale.
Oltre a questo vasto lavoro sullo statuto dell’immagine, il film ripropone la complicata questione dell’auto-rappresentazione. Come avveniva in The act of killing, la regista segue la ricostruzione della routine di alcune persone mettendo i protagonisti stessi nella condizione di poter manipolare, falsificare, eludere oppure, al contrario, inverare il proprio trascorso nella rappresentazione filmica. In questo modo, la realtà dei soggetti si tramuta in viva percezione di un passato poco chiaro e ingombrante che, talvolta, torna a tormentare il presente. Se in The act of killing la messa in scena dello sterminio indonesiano causava, nei carnefici, velati sensi di colpa per l’atrocità dei gesti compiuti, in Shooting Ourselves l’eterogeneità dei partecipanti non consente l’emergere di una presa di posizione netta nei confronti della guerra. Nel documentario del 2012 Cynn e Oppenheimer avevano intenzione di denunciare, seppur in modo assolutamente originale, la purga anticomunista indonesiana, mentre in questo nuovo lavoro l’atrocità didascalica del conflitto è lasciata ai margini, divenendo il pretesto per imbastire un percorso per immagini talmente denso e stratificato da offrire uno sguardo estatico e quasi a-morale alle vicende.
In definitiva, Shooting Ouselves è il tentativo di pensare l’immagine contemporanea in modo differente rispetto al paradigma dell’immagine-feticcio e dell’immagine-simulacro. Nell’epoca della riproducibilità digitale, in cui il medium ha frantumato il messaggio, Christine Cynn riesce a decostruire l’universo visuale attraverso una co-appartenenza plurale di schermi, inquadrature e riprese che, lungi dal soffocare la visione, la frantumano in tanti piccoli interstizi in cui uno sguardo altro può trovare il proprio ambiente.