Scriveva Jacques Derrida appena dopo la caduta del muro di Berlino, che il marxismo, nonostante non abbia mantenuto la sua promessa di emancipazione, non poteva dirsi a tutti gli effetti morto. Dopo l’89 era semmai diventato uno spettro. E come tutti gli spettri, più si tenta di ucciderli, più la loro presenza si fa incombente e omnipervasiva.
E che dire allora del maoismo e della rivoluzione culturale cinese? Che quanto meno ufficialmente fanno ancora parte del patrimonio ufficiale del potere di quella che è ormai diventata la più grande potenza industriale e (forse) anche militare del mondo? In Gui ri zi (Shadow Days), l’esordio di finzione di Zhao Dayong (il suo lungometraggio documentario d’esordio, Ghost Town passò al Torino Film Festival nel 2009), gli spettri di Mao sono letteralmente ovunque.
Zhiziluo, la piccola città dello Yunnan (la regione del sud-ovest della Cina al confine con il Myanmar) dove si svolge il film sembra un luogo deserto e abbandonato. Più che da uomini pare abitata dai fantasmi: sono i segni erosi dal tempo di quella che fu la Rivoluzione Culturale, che vediamo apparire impolverati e ingialliti nella tappezzeria delle case o sui monumenti ormai decaduti.
Ma si sa che quando una promessa di emancipazione non viene mantenuta, spesso non scompare del tutto, ma continua a esistere nella sua forma tradita e invertita. E si manifesta come potere bruto, violenza pura e semplice. Quella di un potere della stato che ormai di rivoluzionario mantiene solo il nome.
Shadow Days racconta la storia di Liang Renwei, un giovane ragazzo della Cina modernizzata e capitalistica, e della sua ragazza Pomegranade, incinta al quinto mese. Renwei vuole far nascere il figlio nel suo paese natale dello Yunnan, e decide di trasferirsi lì con la sua compagna per gli ultimi mesi della gravidanza. Li vediamo arrivare – loro: belli, giovani e pieni di speranze verso il futuro – in questa città fantasma e disabitata. E ben presto si capisce che il problema non è il futuro radioso che sempre ci viene raccontato quando si parla di Cina, ma il passato spettrale, che come tutti i passati non risolti si ostina a non passare.
Pian piano lo sguardo si allontana dai giovani e si sposta sul personaggio dello zio di Renwei, un burocrate sindaco del villaggio, che vive il comunismo come se fosse una religione e che vuole a tutti i costi raggiungere gli obiettivi del Partito Comunista Cinese in termini di controllo delle nascite. Renwei e Pomegranade, che all’inizio vivono la permanenza in questo villaggio con la noia di chi non sa come passare le proprie giornate, iniziano a farsi prendere dai fantasmi: lui prima si veste con la divisa delle guardie rosse, e poi comincia a partecipare alle missioni di controllo delle nascite organizzati dallo zio (in realtà dei veri e propri squadroni della morte, che vanno ad imporre aborti alle donne del villaggio). Mentre lei comincia ad avere le visioni dei fantasmi delle guardie rosse in sonno. Dal sole dei primi giorni si passa alla nebbia e alle piogge, per poi finire con l’ultima parte del film interamente al buio.
La posta in palio del futuro della Cina, in questo film, si gioca infatti sul controllo dei corpi delle donne da parte di un potere che è molto più attratto dalla morte che dalla vita. Il corpo giovane e bello di Pomegranade ci viene mostrato in parallelo al corpo del capo villaggio, che man mano che va avanti il film sarà sempre più malato, sempre più acciaccato. Quale dei due avrà la meglio? La vita o la morte? Il futuro o il passato? La Cina, ci dice implicitamente Zhao Dayong, non è un paese rivolto verso il futuro, ma verso il passato: intrappolato in spettri che non se ne vogliono andare.