L'illusione di essere il padrone della propria vita, l'autore, il metteur en scène. Di poter tornare a casa dopo 12 anni e dire, semplicemente, "sto per morire". Ma Louis non ha fatto i conti con gli attori di quel palcoscenico "alla fine del mondo", le persone da cui è fuggito per diventare se stesso. Rancori, rimorsi, rabbia, solitudine, frustrazione, disperazione. Arriva Louis e la famiglia esplode, senza mai mettersi davvero in discussione, senza apparenti ragioni, se non una cronica incapacità di amare (se stessi, innanzitutto).
Non c'è modo di guardare le cose a distanza, nel nuovo film di Xavier Dolan, Juste la fin du monde. Non c'è un contesto. Non ci sono spazi in cui muoversi. Ci sono solo primi e primissimi piani, solo volti, catene di campi e controcampi, traiettorie chiuse di sguardi (troppo) ravvicinati che rimbalzano sulla presenza ingombrante di Louis. Nessuno riesce a capire perché è tornato. Ma ognuno in fondo sente che quella è "l'ultima occasione", una provocazione, uno scandalo.
La messinscena è soffocante. Così come la bolla di parole dette, urlate, farfugliate, sbagliate, troncate, che quasi stordisce. La sfida per Xavier Dolan era quella di non tradire il linguaggio - complesso nevrotico fluviale - di Jean-Luc Lagarce (l’opera teatrale da cui è tratto il film è del ’90, lui è morto di Aids nel ’95, a 38 anni). La verità dei personaggi, le loro emozioni, i pensieri reali, si indovinano nello spazio di un'esitazione o una frase rimasta a metà, nell'eco silenzioso e assordante lasciato da uno sfogo senza senso, nel vuoto di significato dei battibecchi a perdifiato, nelle domande senza risposta o i dialoghi che si avvitano su se stessi.
Louis (Gaspar Ulliel) è l’omosessuale che se n’è andato a fare l’artista. Ma qui è solo un figlio e un fratello che non può “salvare” nessuno, nonostante le aspettative della Madre (che ancora una volta si chiama così, non ha bisogno di un nome), in un clima di isteria urlata, in cui nessuno sembra capace di ascoltare l’altro e in cui il sofisticato figliol prodigo è destinato a soccombere. Le uniche vere aperture – dilatazioni del tempo e dello spazio – stanno nei ralenti improvvisi, in cui gli sguardi sembrano finalmente acquistare un senso, galleggiando sul silenzio, oppure nei flashback fantasmatici, con la musica a palla e i frammenti di immagini sensuali e calde.
Chiamatelo pure, se volete, melodramma da camera.
Poco importa dei generi, o dei grandi autori del passato (Fassbinder? Douglas Sirk?), al cinema epidermico e vitalista di Dolan, che anche questa volta gioca tutte le sue carte sull’attimo (ogni attimo del film), la sensazione, la performance (lo aiutano Nathalie Baye e Vincent Cassel, Léa Seydoux e Marion Cotillard, tutti opportunamente sopra le righe), l’intuizione più o meno felice, l’artificio più o meno brillante... Cinema imperfetto, presuntuoso, nevrotico, meravigliosamente vivo, anche quando parla di morte e della solitudine radicale a cui siamo condannati