Mai come quest’anno, anche prima del discutibile Palmarès che ha premiato Loach e Dolan, il festival di Cannes ha confermato una cosa abbastanza importante e per certi versi difficile da accettare. E cioè che guardare film e poi pensarci su, scrivendo recensioni ed elaborando pensieri, ipotizzando versioni di possibili futuri o cercando di intuire probabili direzioni, ha senso solamente nel momento in cui si è pronti a confrontarsi con ciò che si vede, interrogando il film stesso e non l’idea di cinema che si spera di trovare o si prova ad applicare.
Le politiche autoriali, i modelli di narrazione, le possibilità offerte da questo o quel supporto (a proposito, è tornata la pellicola; la si è vista e riconosciuta nei film di Assayas, Dolan, Serra, nel vincitore del Certain regard The Happiest Day of Olli Maki di Juho Kousmanen) hanno senso se adattate al singolo film, alle sue ragioni e alla sua natura, mentre diventano una sorta di cecità, di forme a priori inerti, se applicate come un modello in carta velina, o addirittura se utilizzate a favore o contro un film, che a quel punto non viene nemmeno più guardato.
Cosa si dovrebbe pensare, ad esempio, di Personal Shopper di Assayas, un film di fantasmi a Parigi, con uno regista fra i più colti e intellettuali che si inventa spiriti e bicchieri volanti, se lo si giudicasse in base ai suoi lavori precedenti? Si penserebbe, ad esempio, che l’autore di Sils Maria ci prova ma sbaglia, che pasticcia, che prende direzioni sbagliate... Ma se lo si guarda con pazienza e curiosità, se ci si fida del suo modo di costruire le inquadrature, di inseguire la sua protagonista, di trasformare la monolitica Kristen Stewart in una sorta di manichino in carne e ossa, seducente e inquietante al tempo stesso, si accetterebbe la nascita del mistero nelle sue immagini come un inevitabile, quasi scontato passo in avanti della sua poetica; si proverebbe la meraviglia di assistere a una filmografia che rinasce continuamente; si tornerebbe a vedere nella pellicola una materia più viva e cangiante del digitale, senza per questo pensare che il digitale debba per forza essere piatto e respingente (vedere per credere il modo in cui Mungiu usa la profondità di campo in Bacalaureat), per quanto in The Neon Demon di Refn ci provi in tutti i modi a trasformarlo in una sorta di lamiera cromata di colori e immagini allo stato puro.
La realtà che il cinema si trova ad affrontare è come il palo della cassette delle lettere di fronte alla casa di Paterson, l’autista di autobus protagonista dell’omonimo film di Jarmusch: una linea storta in una inquadratura di linee perpendicolari. Quella linea il cinema (o la poesia, o la pittura, o l’arte tutta) può anche pensare di raddrizzarla: ma in ogni caso ci sarà sempre qualcuno – come il cane Marvin – che penserà a riportarla fuori asse. E cosa succederebbe se le linee continuassero a non coincidere? Saremmo ancora in grado di accettare che qualcosa sfugga al nostro occhio?
Lo stesso verdetto controverso, più che confermare che in fin dei conti è pur sempre una questione di punti di vista, ribadisce che il problema non sono i singoli film, ma l’idea di cinema che si vorrebbe applicare (visto che, come sappiamo, ognuno ne possiede una). Se qualcuno, oggi, è ancora convinto che il cinema di Loach sia contemporaneo e utile alla causa, buon per lui. E stesso discorso, su un versante (anche politico) opposto, per chi alla vigilia era convinto che per il solo fatto di aver realizzato un film molto cool come Mad Max: Fury Road George Miller avrebbe schifato gli habitué di Cannes Dardenne, Almodóvar, o proprio i premiati Loach e Assayas…
Di fronte a un film, a un’idea preconcetta di cinema, e prima ancora di mondo, di vita, di pensiero e di sentimento, un critico è un po’ come il povero ispettore Peluchonneau di Neruda: al perenne inseguimento di un oggetto, convinto di poterlo raggiungere, condannato a farselo sfuggire, e alla fine costretto ad accettare l’idea che è lui l’inseguito e non l’inseguitore; lui l’osservato e non l’osservatore; lui, ancora, la creatura e non il creatore.
Avere un’idea di cinema, appassionarsi per ciò che si vede e si trova in un film, godere del piacere di veder confermate le proprie passioni, o le proprio idiosincrasie, è una cosa tanto inevitabile quanto giusta – e tutti la mettiamo in pratica. Il difficile sta nel capire quanto e come applicare ogni forma di pregiudizio, e lasciarsi scivolare di dosso l’ego almeno durante la visione. Se non pensassimo di essere noi spettatori quelli veramente in gioco quando si guarda un film, non avrebbe senso nemmeno andare al cinema.