Qualcuno scrisse che era saccente, altri che era troppo scherzoso, o troppo barocco, o troppo superficiale: Le tentazioni del dottor Antonio, 40 minuti trascinati dalla musica di Nino Rota e, soprattutto, dal ritornello «Bevete più latte!». Nel 1962, a due anni da La dolce vita, Fellini ride, dei moralizzatori che avevano attaccato il suo capolavoro per pruderie benpensante, e di sé stesso, che non si stanca di accumulare ossessioni cattoliche, scherzi da disegnatore umoristico e un furioso attaccamento di provinciale per Roma fastosa e discinta. Una Roma, se vogliamo, anche lei di provincia: Eur, quartiere di geometrie razionaliste e spianate ancora campestri, laghetto sul quale fare sci d'acqua e andare in pedalò e set di pepla caserecci. Aperto dalla vocina squillante di un Cupido bambina che ride e si diverte tanto, e da sfilze di pretini in rosso, suorine in bianco, collegiali in giallo (è il suo primo lavoro a colori), e dominato dalla gigantesca Anita, dai suoi piedi, il suo seno, i suoi occhi, i suoi capelli, che si beffa del minuscolo bacchettone che vuole ucciderla per non desiderarla, un piccolo, magnifico gioco a rimpiattino tra l'autore e la "sua" città, il suo passato, il suo mestiere, i suoi incubi, i suoi sogni. Sta lì, sospeso tra il Fellini commediante e quello onirico, tra l'apparizione dello Sciecco Bianco sull'altalena e la visione dell'harem di Guido Anselmi, un desiderio incastonato nella memoria di un visionario che sapeva leggersi (e leggerci) dentro molto bene e che ha sempre conservato il grande dono dell'ironia.