Cameron Post (Chlöe Grace Moretz) ha sedici anni – siamo nella Pennsylvania degli anni Novanta – e ha le idee chiare sul proprio orientamento sessuale: a un ballo scolastico, dopo le foto di rito con il suo fidanzato e le usuali sessioni di ballo, si chiude in macchina con la sua migliore amica per un incontro appartato. Sfortunatamente le due vengono scoperte e Cameron, orfana per un incidente di entrambi i genitori, è spedita dai suoi tutori in una comunità di “riabilitazione” – il God’s Promise Camp – gestita da fondamentalisti cristiani pronti a estirpare la tendenza a qualsiasi atto peccaminoso “contro natura”. La routine giornaliera è fatta di canti rivolti all’Altissimo, intonati da un baffuto con chitarra e un passato di “same sex attraction” da cancellare, e sedute di autoanalisi (o, meglio, di autodenigrazione) tenute da una psicologa ossessionata dalla missione di guarire – l’omosessualità non è un errore ma una “malattia” vera e propria – quelle anime cadute nel peccato. La sua compagna di stanza è una fragile sportiva, ferocemente motivata al rinsavimento ma ancora vittima di incontrollabili pulsioni carnali; così Cameron trova sponda nella frequentazione di due ribelli (un native american e una rasta, la Sasha Lane di American Honey) nel cui sguardo non addomesticato specchia la propria individualità.
The Miseducation of Cameron Post mescola un racconto di formazione (e di affermazione) sessuale con le dinamiche tipiche dei film concentrazionari. Il God’s Promise, in fondo, assomiglia sia alle comunità di recupero per tossicodipendenti (come quella di Ragazze interrotte) che alle sette teocratiche di ispirazione post-hippy (descritte in film come La fuga di Martha). La differenza è che la cura per Cameron non è possibile perché la sua fermezza (e una vaga ma decisa certezza di sé) le impedisce se non di entrare in crisi, quantomeno di mettere in discussione la propria identità. La protagonista non subisce quindi una trasformazione ma si fa testimone della grettezza indicibile dei suoi istitutori, di una violenza psicologica immane condotta nel nome di Dio. L’assenza di un arco di trasformazione del personaggio rende il film fin troppo lineare e lo sviluppo drammaturgico segue un piano inclinato non difficile da prevedere. Resta però chiara l’intenzione della regista Desiree Akhavan (che ha tratto la sceneggiatura, scritta con Cecilia Frugiuele, da un romanzo di Emily M. Danforth) di testimoniare la contraddizione in termini e la crudeltà diffusa di istituzioni che, nella pretesa di illuminare la strada, cancellano desideri e individualità, risvegliano mostri e creano automi. La psicologa Lydia (Jennifer Ehle) ha i tratti di placida e luciferina tirannia che ricordano quelli di una guardia carceraria o dell’infermiera Ratched di Qualcuno volò sul nido del cuculo. La minaccia alla propria libertà non viene però da omaccioni in divisa o da personale medico in odor di sadismo, ma dai sorrisi liquidi e dagli sguardi protettivi e senza vita di orgogliosi e tetragoni servi di Dio. The Miseducation of Cameron Post è in fondo un film disturbante ma piano e lineare, a tratti piatto nel suo schematismo diffuso e nella sua ansia di chiarezza, che esclama la necessità di una presa di posizione chiara e senza fronzoli a sostegno dell’autodeterminazione sessuale: un discorso all’apparenza ovvio e conclamato che, nell’America bigotta di Trump e di una Bible belt in ideologica espansione, acquista un rinnovato e allarmante significato politico.