Tish e Fonny sono una coppia di colore nella Harlem degli anni Settanta: lei è una diciannovenne indipendente e piena di vita, lui ha appena capito di sentirsi un artista e sogna di convogliare la sua manualità operaia in una forza creativa ancora da definire. Si conoscono da quando sono bambini, scoprono l’amore con una naturalezza da predestinati, progettano una vita insieme nonostante la loro giovinezza. Un giorno, improvvisamente, Fonny si ritrova in prigione accusato di uno stupro – poteva (e ancora può) capitare, a un giovane nero, di essere ingiustamente accusato e incarcerato sulla base di prevenzioni razziali e non di prove giudiziarie – mentre Tish scopre, con più entusiasmo che preoccupazione, di essere incinta. La ragazza ha ora un solo scopo: tirare fuori di galera il suo compagno prima che il bimbo nasca, riempire la cella di Fonny di una luce di speranza, di uno sguardo rivolto verso un futuro che ora sembra nerissimo.
Dopo il trionfo agli Oscar di Moonlight, Barry Jenkins alza il tiro, adattando un celebre romanzo di James Baldwin, uno degli autori fondamentali per capire e percepire la black consciousness di allora e di oggi, e passando dalla formazione sentimentale e sessuale di un singolo personaggio all’affresco storico e sentimentale di una comunità e di un’epoca. If Beale Street Could Talk (Beale Street è una delle vie più celebri di Memphis, dove nella prima metà del secolo scorso si suonava il blues e gli afroamericani potevano trovare sollievo da un quotidiano intriso di feroce razzismo) è quindi il racconto di un amore felice contrastato dalle circostanze ma anche dalle motivazioni che quelle circostanze muovevano: la storia di due innamorati, delle loro famiglie e del potere bianco (che rappresenta le istituzioni, in tutte le sue forme), pronto, alla prima occasione, a rigettarli in un angolo e a mostrare il suo vero volto.
Jenkins sostituisce il tono rapsodico di Moonlight, diviso in tre momenti emblematici nella vita di un bambino-ragazzo-uomo, con un andamento più sinfonico, dando spazio ai personaggi che abitano la vita dei protagonisti (madri padri sorelle amici avvocati), affidando alla voce over di Tish un commento ragionato all’evoluzione degli eventi (preso spesso letteralmente dal romanzo di Baldwin), mescolando i piani temporali per affiancare cause ed effetti con risultati altalenanti. La ricostruzione d’epoca (di strade, case, costumi, musica) è metodica e puntuale e punta su una sfumata definizione delle classi sociali: per cancellare ogni traccia di miserabilismo, Jenkins dona un’allure quasi borghese ai suoi personaggi, sempre impeccabili nel vestire e nel parlare, rappresentanti di un proletariato politicamente conscio e quindi attento a preservare un’evidente dignità. Jenkins affronta con rispetto il materiale di Baldwin – citandolo, come abbiamo detto, a più riprese – enfatizzando una certa pulsione mélo dalle scoperte influenze sirkiane anche nei momenti di più diretta denuncia degli abusi di potere, costruendo un racconto ostentatamente popolare fatto di immagini smaglianti e canzoni seducenti, finendo però per narcotizzare il lato più politico del racconto. Perché se già il romanzo originario era «una storia commovente e dolorosa, ma in fondo ottimista» – come scrisse Joyce Carol Oates sulle pagine del New York Times all’uscita del libro –, la trasposizione di Jenkins rischia di appiattirsi proprio su quell’ottimismo, su quella luce di speranza che in Baldwin impediva la rassegnazione e spingeva al coraggio e che tende qui, nella brillantezza delle immagini e della messa in scena, a diventare un espediente romantico, fin troppo normalizzatore e rassicurante.