Tre le tante proposte dalla XXXVI edizione del Festival Il Cinema Ritrovato (a Bologna fino al 3 luglio), tra le tante curiosità, gli omaggi e i classici imperdibili ricostruiti a volte pezzettino per pezzettino attraverso le ricerche e gli sforzi congiunti di cineteche e collezionisti internazionali, una riscoperta notevole è quella di Hugo Fregonese, al quale è dedicato un cospicuo omaggio composto di nove film. Regista e produttore non solo hollywoodiano attivo tra gli anni '50 e '60, Fregonese era nato in Argentina nel 1908 da freschi immigrati trevigiani, aveva frequentato l’università negli Stati Uniti e là aveva cominciato a lavorare nel cinema come consulente per i film con ambientazioni e soggetti latino americani. Di nuovo in Argentina, negli anni 40 era diventato sceneggiatore e regista e, nel 50, era risalito negli States, direttamente a Hollywood, dove in cinque anni firmò una decina di film di impegno produttivo non più che medio, ma di notevole coerenza stilistica, visiva e narrativa. Poi ricominciò a viaggiare e ha realizzato film praticamente dappertutto, compresa la Cina, riflettendo in questa sua irrequietezza anche una delle caratteristiche dominanti dei suoi protagonisti.
Personaggi in fuga, da una donna che vogliono dimenticare, da un appuntamento con il destino (leggi: la morte) che vorrebbero procrastinare, magari da un’intera comunità che dà loro la caccia; o semplicemente personaggi in perpetuo movimento per evitare le trappole della vita convenzionale che non fa per loro. Il sogno del cowboy, verso Ovest, come nel caso della bizzarra commedia western con bambini Saddle Tramp (1950), con Joel McCrea che suo malgrado fa da balia ai quattro figli di un suo amico morto e a una diciannovenne fuggita alle pesanti angherie di uno zio laido, tentando sempre di raggiungere la California e riuscendo anche a mettere pace tra due vecchi possidenti che si odiano senza motivo. O il miraggio di ogni antieroe americano braccato dalla legge o dalla malavita, verso Sud, in Messico, come accade a Doc, ambiguo medico al soldo di una banda di gangster che scappa da Los Angeles rubando al boss una borsa con il frutto dell’ultima rapina e (peggio ancora) la sua ragazza, che nel frattempo si è innamorata del medico: One Way Street (Appuntamento con la morte), il primo noir hollywoodiano di Fregonese, ha un inizio eccezionalmente stringato, che va dritto al cuore di una mitologia che non esige spiegazioni (i rapinatori intorno a un tavolo con la borsa dei soldi, il grande James Mason con la faccia tormentata da medico losco, la notte, l’auto, gli incidenti) e, di detour in detour, conduce alla pace onesta del pueblo messicano e poi di nuovo indietro, alla pioggia e alla notte della città. Non il migliore dei suoi noir-thriller, ma già un film ricchissimo di atmosfera, con gli ambienti incombenti e i piani che si chiudono sull’ossessione senza nome del protagonista, mentre il paesaggio respira nella luce messicana.
Tra gli altri noir, Man in the Attic (Una mano nell’ombra, 1953), quarta versione del romanzo The Lodger di Marie Belloc Lowndes (dopo quelle del ’26 di Hitchcock, del ‘32 di Elvey e del ’44 di Brahm) su Jack lo Squartatore, dove il solitario, educato patologo Jack Palance prende in affitto due stanze in una rispettabile casa londinese proprio nella notte di uno degli omicidi di The Ripper. Tutto chiuso tra le pareti vittoriane e tre vicoli notturni di Whitechapel, con inquadrature dal basso e dall’alto che opprimono Palance e ne sfidano la stabilità psichica, offre una lettura edipica e disperata della storia. Ma, quanto a claustrofobia e destino ineluttabile, il grande noir di Fregonese è certamente Black Tuesday (Pioggia di piombo, 1954), ultimo film hollywoodiano dell’autore, che si apre nel braccio della morte di un carcere, dove un condannato nero comincia a cantare battendo un rudimentale tamburo e la macchina da presa scorre lungo le celle i cui occupanti si muovono come belve in gabbia, o stanno immobili in attesa della sedia elettrica. Il giorno dopo Edward G. Robinson, nell’ultimo ruolo da gangster spietato della sua carriera, guida un piano di fuga dalla sala stessa dell’esecuzione, che però conduce gli evasi e i loro ostaggi all’interno di un’altra trappola senza uscita, un magazzino senza finestre, dove li attendono armi e complici ma dove vengono anche circondati dalla polizia. Fotografato in bianco e nero da Stanley Cortez, Pioggia di piombo, serrato negli spazi e nei tempi, è oppresso da una fretta nervosa e dalla percezione che per quei tipi (del noir, del gangster movie, del film di rapina e di fuga) non ci sia altra storia possibile se non la disfatta totale. Sono tutti un po’ acciaccati, a partire dai più anziani (il gangster e la sua bionda, il poliziotto umano e il prete pronto al sacrificio) per arrivare ai più giovani, il bandito dagli occhi chiari, l’ingenua, il giornalista alle prime armi; fuori dal mito, senza possibilità di fuga. Come minimo, un film premonitore.