Tre pezzi dagli archivi di Cineforum

Gene Tierney: Preminger, Stahl, Mankiewicz

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In occasione della rassegna La diva fragile, dedicata a Gene Tierney e distribuita da Lab80, siamo tornati a rovistare negli archivi della rivista Cineforum, alla ricerca di materiale dedicato a tre dei film in programma. Ecco cosa abbiamo trovato: Vertigine (Lauradi Otto Preminger del 1944, Femmina folle (Leave Her to Heavendi John M. Stahl del 1945, Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir) di Joseph L. Mankiewicz del 1947. 


VERTIGINE di Otto Preminger (1944)

Sera. Pioggia battente. McPherson/Dana Andrews percorre il marciapiede che conduce al portoncino della dimora di Laura/Gene Tierney. Scambio di battute con il poliziotto di guardia: amichevole ma autoritario. Una volta dentro, si muove come se fosse a casa sua . Tra vestibolo, soggiorno e camera da letto: si mette a suo agio, allenta la cravatta, spegne la sigaretta in un portacenere, estrae un fazzoletto di seta da un cassetto in camera, si guarda allo specchio dell’armadio accennando a sistemarsi i capelli. Infine si versa da bere. Si impossessa di quell’ambiente, senza rendersi conto di esserne in realtà già posseduto. Ci pensa subito Waldo a chiarirgli le idee: l’irruzione risulta un po’ troppo didattica, anche se inizia in modo molto promettente, ma per fortuna dura poco. McPherson ritorna al bicchiere e alla sua rêverie di fronte al ritratto della “defunta”: il sonno lo accoglie aprendogli le porte di una realtà stupefacente. Laura gli compare davanti, viva. Per un attimo tutto vacilla, ma poi i riflessi professionali rimettono i ruoli a posto e tirano la volata dell’affidabilità del maschio, forte e innamorato: «Si tolga l’impermeabile bagnato, potrebbe ammalarsi».

Quintessenza del noir, questa sequenza di Laura di Otto Preminger, morbosa quanto poche altre, dove i confini tra lecito e illecito si disfano sotto le apparenze dell’attaccamento al dovere. L’apparizione luminosa di Laura è di una immoralità spudorata: il desiderio più inconfessabile non soltanto resta impunito, ma risulta alla fine addirittura premiato oltre ogni speranza.

E in questa apologia della perversione Preminger trova il modo anche di incastonare una raffinata soluzione linguistica. Quando McPherson si addormenta, l’inquadratura si conclude con un carrello indietro, che ha evidente funzione temporale e sostituisce altrettanto evidentemente una dissolvenza: quest’ultima, infatti, se messa lì sul primo piano di una persona che si è appena assopita, caricherebbe l’inquadratura successiva di una valenza onirica in questo momento scorretta, dal momento che Laura entra veramente nella casa. Per la gioia di McPherson e la nostra.

(Adriano Piccardi, in Bagagli, «Cineforum n. 346, luglio/agosto 1995)




FEMMINA FOLLE di John M. Stahl (1945)

Ecco qui uno dei più straordinari film della storia del cinema, non di quella classica, ma di quella ancora tutta da scoprire. In pieni anni Quaranta, nel momento cruciale del film noir, Stahl realizza questo capolavoro che rovescia tutti i punti di riferimento possibili. Il triangolo crimine-amore-morte esce fuori dai binari consolidati del genere: squarcia il bianco e nero con un Technicolor da Oscar (di Leon Shamroy) che traspone i conflitti interiori in soluzioni cromatiche estreme; scaccia il noir dall’ambiente urbano per rigettarlo in uno splendido paesaggio di montagna, fuori dai labirinti infernali della metropoli e immerso fino in fondo dentro la natura (forse per esasperare le caratteristiche “innaturali” della protagonista).

Pienamente dentro la criminalizzazione della donna di quegli anni, la dark lady di Femmina folle va oltre le coordinate delle sue “colleghe” con la pistola. Non punta alla morte dell’uomo, al suo denaro, al suo potere. L’ossessione di Ellen Berent è quella del controllo, del dominio dei (sui) sentimenti. Che la spingerà a uccidere (il fratello del marito), a lanciarsi dalle scale (per abortire il figlio che ha in grembo), e infine a suicidarsi per far incriminare la sorellastra Ruth di omicidio.

Ma in questa “mostruosizzazione” della donna, oltre alle paure del maschio del dopoguerra, si intravedono, per contrasto, alcune delle linee in cui l’emancipazione femminile nei decenni successivi cercherà di “liberarsi” dal dominio maschile: rifiuto del conformismo, del ruolo di moglie e di madre, della dedizione alla casa e alla famiglia.

E il mélo, in questo splendido Leave Her to Heaven (lasciala andare in Paradiso…) si trasformò in un gelido noir, anche e soprattutto atraverso il volto gelido, etereo e bellissimo di Gene Tierney, vera “aliena” del cinema americano del dopoguerra.

(Federico Chiacchiari in Squarci di cinema, «Cineforum» n. 364, maggio 1997)




IL FANTASMA E LA SIGNORA MUIR di Joseph L. Mankiewicz (1947)

Come se il cinema fantastico di fine anni Quaranta costituisse una piattaforma ideale per una Keats-renaissance, ecco il poeta inglese fare capolino […] in Il fantasma e la signora Muir di Joseph L. Mankiewicz. «Incantate finestre spalancate sulla schiuma / di mari perigliosi in magiche contrade abbandonate» (Ode a un usignolo, 1819, vv. 69-70). E a fare capolino non in un’epigrafe più o meno convenzionale, bensì attraverso la peculiare dizione di un attore, Rex Harrison, travestito da nero fantasma galante e rivolto alla rapita Gene Tierney, la giovane vedova Muir (mare, in gaelico: siamo nel villaggio di Whitecliff, sul Mare del Nord) che ha affittato il cottage del defunto capitano di marina suscitandone le immancabili rimostranze. O, per meglio dire – se davvero si potesse dire in italiano –, “mostranze” (monstrance, “ostensione”): dal momento che il fascinoso Daniel Gregg si “mostra” senza tanti imbarazzi in veste di revenant a un’inquilina, Lucy Muir, a sua volta per nulla imbarazzata (ed è per questo che legano fin dal primo incontro, notturno ma nient’affatto spaventoso, se mai disinvolto e rilassato) dalla presenza ostinata dell’ospite. Il che sposta inesorabilmente l’asse ermeneutico dalla ghost story alla sophisticated comedy, con gran sfoggio di atmosfere gotiche de-goticizzate da un romanticismo più solare (il mare, la spiaggia, il plein air marino in cui il fantasma si muove pienamente a suo agio) che sinistro – tanto che verremo a sapere alla fine, anche se lo spettatore attento ha modo di accorgersene assai prima, che l’illustre trapassato intrattiene rapporti non meno amabili con la figlioletta di Lucy, la non meno disinibita Anne, bambina del tutto refrattaria alla paura dei fantasmi.

Non è che, in Il fantasma e la signora Muir, manchi la figura topica del prisoner. Solo che il prisoner non è Daniel Gregg, eventuale inoffensivo nosferatu finito in cattività tra le mura stregate del suo stesso cottage, bensì Lucy Muir, o, perché no?, Anne Muir, inquiline segrete di una shanned house cui si sentono legate da un troppo sollazzevole “patto con il fantasma” per avere la benché minima intenzione di violarlo. La sciarpa di Il ritratto di Jenny? I ritratti stessi di Il ritratto di Jenny? Macché. Tra le pieghe del precoce modello di cross over disegnato da Mankiewicz per l’occasione (mystery gotico più commedia sentimentale più dramma romantico più thriller ironico alla Hitchcock: le musiche sono firmate da Bernard Herrmann) si lascia affiorare, e con la massima credibilità diegetica, un ben più concreto talismano di origine soprannaturale, nientemeno che un libro a quattro mani destinato non solo alle stampe ma a un sicuro successo editoriale, dunque non un lascito di natura ultraterrena quanto un’eredità di natura quanto mai terrena e soprattutto pubblica, che trascende il destino privato (Daniel ripiombato tra le ombre in attesa della morte-ricongiungimento di-con Lucy, Anne sposa felice “emancipata” dal vincolo primario con il cottage dell’infanzia) degli stessi contraenti il patto: il libro di memorie dettato nelle interminabili ore buie dall’incantevole man in black all’incantata apprendista di termini marinareschi e solecismi da lupi di mare. Perché, come sempre in Mankiewicz, a farla da padrone non è lo storytelling in sé, e tantomeno lo storyboard (che pare non esistere). È lo storyteller in persona.

(Sergio Arecco, Sogni (di) prigionieri, «Cineforum» n. 514, maggio 2012)