A biglie ferme, a prescindere dagli esiti del concorso lungometraggi – la giuria composta da Giuseppe Genna, Yann Gonzalez e Salette Ramalho ha premiato due estremi linguistici, l’ucraino The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy e il messicano Navajazo di Ricardo Silva – e di quello dei cortometraggi, che sono in sostanza tra le poche informazioni ad aver varcato la soglia dell’informazione quotidiana, sgomitando tra MiTo, panoramiche Agis e Settimana della Moda, è abbastanza evidente come il Milano Film Festival n°19 abbia di nuovo tentato di proporre un’offerta cinematografica che per concentrazione di generi, tematiche, stili, approcci rimane unica in città.
Per restare al concorso lunghi, la selezione comprendeva anche, per la prima volta, due anteprime italiane assolute: il documento intimo e necessario, Comandante di Enrico Maisto (nella foto), e l’ostinazione politica, linguistica e surreale, Le sedie di Dio di Jérôme Walter Gueguen. Tra i più apprezzati dal pubblico, che poteva votare via app, il curdo Come to my voice di Hüseyin Karabey, il tedesco Age of Cannibals di Johannes Naber e il georgiano Brides di Tinatin Kajrishvili, confermano un’attenzione a forme narrative legate all’urgenza di raccontare pieghe più o meno esplicitamente politiche della contemporaneità. Li si era visti a Berlino, come anche il folgorante Forma di Ayumi Sakamoto, ma la mission dei festival “indipendenti” come il MFF è, non da ultimo, la divulgazione, o distribuzione puntiforme che dir si voglia. Come dire, ben vengano i film che rischieremmo di non vedere o di non far vedere.
Certo, anche quest’anno si è avvertito uno scollamento tra la coerenza della programmazione cinematografica e le manifestazioni o distrazioni esterne, che catalizzano l’attenzione di molto pubblico (concerti, apparati di ristoro e bar che rientrano in una logica di auto-sostentamento della manifestazione meneghina, la quale, va ricordato, non ha budget stellari, e poco più che qualche amichevole pacca sulle spalle delle istituzioni locali).
Le attività all’aperto, però, non erano solo extra-cinematografiche: non poteva mancare la maratona di animazione, che da anni è tra i momenti più attesi del MFF, presentata su maxi-schermo, al Parco Sempione, sotto il cielo incerto di fine estate. L’occasione, come sempre, per campionare i confini e i casi limite del cinema “disegnato” o “modellato”, dall’astrazione psichedelica di The Construction of Anstalt3000 di Helmut Munz all’umorismo anarchico e surrealista di Homo Homini Bisonte di Emanuele Simonelli e Astutillo Smeriglia, alle secrezioni corporali in clay-motion di Soucisse di Martin-Meilleur Gabriel, all’animazione classica eppure innovatice di Coda di Alan Holly, protagonista anche di un workshop creativo. L’animazione era rappresentata però anche da un lungometraggio importante, O menino e o Mundo, sorprendente “fantasia” brasiliana dalla forte marca ecologica e politica (premio del pubblico ad Annecy) e, soprattutto, dalle celebrazioni per gli 80 anni di un maestro indiscusso come Jan Švankmajer, di cui si presentava Qualcosa di Alice (1988) e un programma dolorosamente circoscritto ma significativo di cortometraggi.
Di nuovo al Parco, diversi gli orari di programmazione, per il late-evening show, Video Espanso, che si confrontava, organizzandoli per sottogeneri e tipologie, col meglio dei video musicali di ultima generazione. L’assunto è semplice, ma non scontato: oggetto di una progressiva, inesorabile rivoluzione/ibridazione con arti visive e performative, i video non son più il corredo visivo, il lancio commerciale, del brano, del fatto musicale, ma, in qualche misura, ne costituiscono la sostanza stessa, la facies più riconoscibile.
Approfittando della presenza, in qualità di giurati per il concorso cortometraggi, di elementi di BFI e Lux-artists’ moving image, si coglieva anche l’occasione per gettare uno sguardo retrospettivo, verrebbe da dire archeologico, sulle sperimentazioni (elettroniche e non) della scena post/punk e underground londinese nel primo lustro degli anni ’80, proprio in tema di video musicale. Chiave di volta non dichiarata di questo programma (era in realtà tra gli Outsiders) quell’oggetto indecifrabile che è Purple Rain di Albert Magnoli, glorificazione precoce di Prince, meno sbrigativo di quanto ce lo si ricordasse, pur sempre in bilico fra il trash e il sublime. Più tradizionale “film concerto” è invece Hai paura del buio di Giorgio Testi, sul concerto con cui gli Afterhours hanno ripresentato, a marzo, l’album omonimo del 1997.
Il programma fuori concorso si presentava dunque più articolato del solito: non solo film presentati nella loro singolare eccezionalità, ma anche piccoli focus. Oltre a quello sul cinema messicano e su Eugene Jarecki, di cui ha già scritto Rinaldo Vignati, era possibile seguire le tessere di un discorso interrotto sull’Europa post-muro, o meglio, sull’idea di Europa dal 1914 ad oggi, attraverso il crollo delle ideologie. Faceva da cornice Les ponts de Sarajevo, film-omnibus già presentato a Cannes e a Pesaro, con tre o quatto punti forti (Di Costanzo, Puiu, Meier, oltre a un Godard riciclato) nella consueta discontinuità del genere; gli altri titoli, da quello apparentemente più leggero Happily Ever After di Tatjana Božic a Experimentul București di Tom Wilson, che gioca col fuoco della verità/verosimiglianza, attraverso Anderson che affronta come un interrogatorio un ex-informatore della Stasi, si confrontano sulle modalità e i limiti del documentario contemporaneo, tra valore testimoniale, memoria e scrittura della Storia, soprattutto di quella così vicina a noi.
Parente stretto di questo disegno, presentato però sotto l’egida di Colpe di stato, era Red Army, ennesimo sforzo produttivo di Werner Herzog: sport, spionaggio, propaganda e identità culturale in Russia tra acme della guerra fredda e inizio del disgelo. Per Colpe di Stato, come tutti gli anni, andrebbe fatto un discorso a parte, essendo quasi un festival nel festival. Ci limiteremo a dire che la rassegna si è avvantaggiata di una riduzione dei titoli sulla causa palestinese (anche perché, per dolorosa contingenza, la cronaca rischia in ogni momento di annientare la forza del racconto filmico), a favore di una rosa più ampia di documenti e testimonianze, sempre delicatissime, anche da altre zone per tante ragioni “calde”. Oltre al caso già citato, si passava dallo sguardo interno ai meccanismi della diplomazia (Serbia e Kosovo, nello specifico) di The Agreement di Karen Stokkendal Poulsen, all’esperimento di “documentary game” di Fort McMoney di David Dufresne; da We Come As Friends di Hubert Sauper, documento lancinante sul neo-colonialismo texano, una forma quasi saprofita, in Sud Sudan, a Children 404, di Askold Kurov e Pavel Loparev, ritratto terrificante di una Russia dove l’omofobia e la violenza contro chi è diverso hanno permeato tutti i livelli della società.
Come già accennavamo, però, una cifra ormai distintiva del festival milanese sono i fuori concorso “sciolti”, gli Outsiders. Non mancavano, secondo una ratio un po’ zibaldonesca, anteprime da cinéphile puro, come il tanto atteso (e se ne potrebbe discutere a lungo) Aimer, boire et chanter, ultimo autografo di Alain Resnais. La prima italiana di un capolavoro come Amour Fou di Jessica Hausner, e quella di Geronimo di Tony Gatlif, più vistoso che bello.
Mescolati alle non-fiction più varie, per tanti versi quasi tutte imperdibili: da Corpo a corpo di Mario Brenta e Karine de Villers, girato addosso a Pippo Delbono e la sua squadra, all’epica in 5k di Watermark di Jennifer Baichwal e Edward Burtynsky, un corpo a corpo con l’acqua, in tutte le sue forme, con un’adesione all’oggetto mai vista. D’altro canto si passava dal quasi insospettabile universo freak-geek della nuova musica elettronica creata a partire da rottami di vecchi videogiochi, illustrato da Europe in 8 Bits di Javier Polo, agli hippy ante litteram di Freak Out di Carl Javér, sulle origini del Monte Verità di Ascona, luogo attorno al quale ruotano alcune delle figure chiave della storia e della cultura mondiale del ’900, le cui vicende sono raccontate mischiando, con una buona dose di rispettosa ironia, convenzioni del documentario e tecniche d’animazione innovative, nella miglior tradizione del Milano Film Festival.