Ci possono essere molti modi diversi per fare un film sull’Italia di oggi. Per parlare di politica, di questioni sociali e per toccare temi di estrema attualità come l’accoglienza, l’inclusione sociale, la tolleranza e il razzismo. Per ragionare su un discorso che si sta facendo sempre più urgente riguardo numerosi argomenti che se da un lato rappresentano la parte più grande del dibattito politico di questi ultimi anni, dall’altro sono anche alla base di arroccamenti culturali sempre più netti in seno all’opinione pubblica.
Ci sarebbero molti modi dunque, ma forse quello scelto da Nanni Moretti – e cioè andarsene il più lontano possibile dall’Italia – è l’unico veramente possibile. Santiago, Italia è infatti un film che parla del nostro Paese di oggi ma che lo fa partendo da 12000 km e 45 anni di distanza. C’è stato un altro 11 settembre, un po’ meno ricordato ma altrettanto terribile di quello del 2001: è quello del 1973 quando l’esercito cileno guidato da Pinochet – con il supporto ideologico ed economico degli Stati Uniti – rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende instaurando una dittatura lunga diciassette anni che piegò duramente il Cile e stroncò in maniera inesorabile il processo democratico del Paese sudamericano. Le immagini della Moneda (la residenza presidenziale) bombardata dai caccia dell’esercito e le ultime parole di Allende, asserragliato nel palazzo, pronunciate per radio poco prima di suicidarsi fanno parte dell’immaginario collettivo di molte generazioni e sono state consegnate alla storia. Quello che forse è meno noto – anche qui dalle nostre parti – è quanto nei giorni e nelle settimane successive al golpe il ruolo dell’Italia sia stato fondamentale nell’opposizione al regime appena instauratosi. Mentre la dittatura aveva già iniziato le durissime e barbare persecuzioni nei confronti dei sostenitori di Allende, l’ambasciata italiana a Santiago iniziò ad accogliere centinaia di persone che cercavano di sfuggire ai rastrellamenti, arrivando ad ospitarne fino a seicento. Nei mesi successivi, grazie ai funzionari dell’ambasciata, al ministero degli esteri di allora guidato da Aldo Moro e al decisivo supporto del PCI, l’Italia riuscì a organizzare il trasferimento di tutti gli asilados nel nostro Paese dove la permanenza fu loro garantita a tempo indeterminato.
Moretti documenta il dolore di un popolo che ha visto sfiorire atrocemente il proprio sogno democratico, raccogliendo i ricordi dei testimoni di tutto quell’orrore e di tutta quella violenza. E affida ai suoi interlocutori la memoria legata alla solidarietà, all’impegno e all’accoglienza che l’Italia seppe dimostrare. Nel film le testimonianze degli italiani sono pochissime (come le dichiarazioni di uno degli allora funzionari dell’ambasciata: Piero De Masi che con il collega Roberto Toscano ebbe un ruolo decisivo nella storia), il resto del racconto avviene per mezzo delle parole dei cileni. L’intento di Moretti è quello di lasciare che a parlare di noi siano gli altri, gli stranieri, i migranti e i rifugiati dell’altra parte del mondo. Vuole che dell’Italia emerga un punto di vista esterno, sconosciuto e laterale, qualcosa che non siamo abituati ad ascoltare e che nessuno, in fondo, ci ha mai raccontato. Ne risulta il ritratto di un paese aperto, curioso, solidale. Sono determinanti in questa storia – come è ovvio – le questioni ideologiche e politiche ed è innegabile che tutto abbia una connotazione fortemente di sinistra. Eppure i cileni che raccontano l’Italia degli anni Settanta – benché siano tutti militanti socialisti e siano stati accolti col favore del PCI – descrivono commossi e riconoscenti un Paese che si dimostrò ospitale e pronto a farsi carico della vita e della sorte di rifugiati stranieri con prontezza e disponibilità e nonostante le difficoltà che stava a sua volta affrontando. Un Paese che sembra stare da un’altra parte – oltre che in un altro tempo – e che a sentirselo raccontare con tanta riconoscenza e tanto calore sembra un posto in cui chiunque vorrebbe vivere.
Eppure non è un film nostalgico Santiago, Italia e nemmeno una celebrazione del “come eravamo” o degli “italiani brava gente”. Rappresenta invece una voce dissonante all’interno di un dibattito sociale che nel nostro Paese si sta sempre più radicando su posizioni populiste, sovraniste e che si nutrono di un nazionalismo rozzo e strumentale. Dove concetti come quello di “rifugiato”, “richiedente asilo”, “profugo” o “migrante” hanno assunto connotazioni negative che vanno al di là del loro significato intrinseco e che hanno lentamente smarrito la propria accezione semantica per diventare antonomasie di una forma mentis, di un’espressione culturale o ideologica. Elementi che siamo abituati a interpretare, a mettere in discussione e a rendere oggetto di revisionismo oltre tutte le regole di buon senso, civiltà, tolleranza e giustezza. Proprio come fanno i due ex militari che Moretti intervista nel film: uno che nega le torture e le esecuzioni e l’altro che sostiene fermamente quanto il golpe abbia ristabilito la democrazia. Invece no, Moretti stesso nell’unico momento in cui compare nel film dice a uno dei due ex soldati che la sua posizione non vuole essere in alcun modo imparziale. Perché non lo è il cinema – nemmeno quello documentario – e perché ci sono storie, situazioni, racconti su cui non si può e non si deve esserlo. Nessuno può rimanere imparziale sul golpe cileno del ’73 (come sul nazi-fascismo, per esempio) e allo stesso modo non si può restare neutrali (o indifferenti) rispetto a quello che accade quasi ogni giorno nel Mediterraneo o sulle frontiere orientali dell’Europa.
Ma quello di Moretti è uno sguardo (ancora una volta) non riconciliato anche nei confronti della sinistra e delle sinistre di oggi. Allo smarrimento dei partiti progressisti contemporanei, soprattutto in Italia, egli contrappone (idealmente) i sentimenti di fiducia, caparbia voglia di rinnovamento e freschezza veicolati dall’affermazione del socialismo democratico di Allende. La forza dirompente di un sogno di cambiamento – quello cileno fu il primo governo socialista democraticamente eletto della storia – che venne accolto con grande entusiasmo in tutto il mondo e la cui tragica fine rappresentò uno choc per milioni di persone. Un’esperienza che ha rappresentato non solo un’occasione mancata ma anche la fine di una speranza che lì, come altrove, non ha più avuto modo di rinascere. E se sostenere che il Cile di allora somigli all’Italia di oggi – come asserisce uno degli intervistati sul finire del film – è davvero troppo azzardato, è pur vero che spesso voltarsi indietro e vedere come speranze ed entusiasmi del passato siano soffocati nel realismo del presente è la più cruda delle prese di coscienza.