Con Entre dos aguas, vincitore della Concha de Oro al Festival di San Sebastián, Isaki Lacuesta riprende la storia dei due fratelli gitani, Isra e Cheíto, già protagonisti di La leyenda del tiempo (2006), qui ormai due uomini che hanno preso strade diverse. Il primo, appena uscito di prigione, cerca di riacquistare la fiducia della sua famiglia e degli amici, con enorme difficoltà, dal momento che è costantemente a rischio di rientrare nel giro. Il secondo è un militare imbarcato su navi che solcano in lungo e largo gli oceani e si trova spesso lontano da casa e a sua volta tenta di aiutare il fratello, pur con ovvie incomprensioni, a reinserirsi.
Costantemente in bilico tra documentario e finzione, Entre dos aguas spiazza lo spettatore rendendo la separazione tra i due indecidibile e entrando talmente nell’intimità di queste due persone da permettere anche a chi guarda di sentirsi parte delle loro vicende, dei loro timori e delle piccole speranze.
Con la macchina da presa costantemente attaccata ai loro corpi, alla pelle segnata, ai tatuaggi, alle lacrime e alle ferite, Lacuesta non è mai irrispettoso o morboso – nemmeno quando mostra in primo piano la nascita di una delle figlie di Isra, la violenza e la naturalezza del parto, la possibilità, anche simbolica di un nuovo inizio. È un’immersione in questa piccola comunità ma al tempo stesso in una parte della Spagna ancora piuttosto arcaica e sanguigna, legata a rituali che, in un certo senso, ne scandiscono l’evoluzione nel tempo.
E è il tempo l’altro grande protagonista di questo film notevole. Non esistono quasi ellissi temporali in Entre dos aguas. I dialoghi, i gesti, le vicissitudini dei protagonisti vengono filmate praticamente in tempo reale, permettendo a chi guarda di provare la stessa attesa, la medesima foga oppure la stessa frustrazione di Isra o Cheíto. La vita per questi due uomini ha tempi diversi poiché le aspettative sono diverse, i desideri e i loro caratteri. Perciò, nonostante la grande naturalezza con la quale la macchina da presa ne segue i movimenti, verrebbe da dire quasi in maniera imparziale, proprio grazie al ruolo che gioca il tempo reale nel film, è possibile percepire il tempo interiore dei due fratelli, così diverso e intimo.
Entre dos aguas è comunque, e soprattutto, un film di corpi. Uno dei grandi meriti del regista è la capacità di mostrarne l’alchimia, la loro vicinanza quasi animalesca. Il modo di sfiorarsi, toccarsi, abbracciarsi, ricorda quello degli animali che si muovono in branco o della madre coi cuccioli. Qualcosa che ognuno di noi conosce ma che cerca costantemente di dissimulare grazie alla buona educazione, al retaggio culturale, alle abitudini sociali. I modi che hanno invece Isra e Cheíto di stare vicini rimangono selvatici, primordiali, estremamente carnali, così come lo sono quelli che li legano agli altri vicini e familiari (i gesti con le donne, le figlie, gli amici).
È un’opera in cui la messa in scena – che c’è, così come c’è una sceneggiatura e ci sono anche degli attori – viene totalmente sfrangiata dall’elemento reale che appare come una sorta di buco nero in cui tutto il resto collassa, di magnete che attira a sé ogni elemento della pellicola e dal quale lo spettatore non riesce a distogliere lo guardo.