Spesso ai festival capita di imbattersi, quasi casualmente, in pellicole capaci di scomporre e analizzare il presente con travolgente facilità attraverso storie lontane e ormai dimenticate. Ed è proprio ciò che è accaduto oggi con Marguerite di Xavier Giannoli, film presentato in concorso alla 72° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e accolto dagli applausi convinti di pubblico e critica.
Dietro al delizioso melodramma, interpretato da una Catherine Frot incontenibile, si nasconde infatti una sferzata decisa alla social media generation, affollata di individui/automi che modellano a piacimento la propria esistenza attenti solo all’aspetto delle pagine profilo.
Così come la protagonista vive felice e inconsapevole un dono che non ha, la voce (assecondata sempre dalle persone vicine), così gli utenti fanno a gara per descrivere a colpi di foto filtrate una vita immaginaria. Tutti ormai risucchiati dagli schermi del telefono, tutti assecondati e coccolati da una società che ne sfrutta palesemente la deriva e li espone a pubblici sbeffeggi.
Non a caso il regista decide di calcare la mano sull’aspetto fotografico (i “finti” ricordi della protagonista sono tutti immortalati e conservati dal domestico), un occhio meccanico capace di congelare istanti mai apparsi. Ma questa è solo l’interpretazione di un dettaglio, non la lettura tout court di un’opera che si ispira alla vera vita della soprano stonata Florence Foster Jenkins, e che forse si perde in un finale approssimativo e in una durata eccessiva.
Restano intatti però gli spassosi acuti della protagonista, i volti pietrificati del suo pubblico e un intreccio classico, ma mai banale, capace di stregare la sala. Una sala sicuramente disposta a sorridere, poco incline a disperarsi e consapevole che spesso per essere felici è meglio restare nella propria illusione.