Venezia 72. Un'altra edizione della Mostra. Altri sguardi. Altre emozioni/commozioni possibili, inseguite, sperate, alcune volte raggiunte altre molto meno.
Accoglienza tiepida ad esempio per Everest di Baltazar Kormakur, il film d'apertura del Festival, finto, confuso, inefficace e soprattutto “freddo”... ben al di là della temperatura sulla cresta del Tetto del Mondo. Il fatto che sia stato girato in gran parte a Cinecittà giustificherà forse la presentazione in questa sede, molto meno purtroppo la nostra visione di questo dramma congelato in cui l'empatia col pubblico in sala fa così fatica ad emergere.
Va decisamente meglio invece per Un monstruo de mil cabezas di Rodrigo Plà, bel film messicano presentato nella sezione Orizzonti. Intenso, disperato, coinvolgente, il film di Plà ti fa riscoprire il piacere di farti raccontare una storia dalle immagini che ti vengono da uno schermo.
Forti emozioni e grande commozione finale anche per Jia (The Family), film d'apertura e fuori concorso della Settimana della Critica, opera prima scritta, diretta e montata dal cinese Liu Shumin. Un film di quasi cinque ore, 280 minuti per la precisione, che parla di Liu e Deng, una coppia di coniugi over 70 che vive in Cina in un piccolo centro dell’entroterra e ospita nella propria casa la figlia separata Liqin e il nipote adolescente. Ci sono poi Xiaomin e Xujun, gli altri due figli di Liu e Deng: vivono in due città diverse e non riescono mai ad andare a trovare i genitori, presi come sono dai problemi economici, che li costringono a lavorare continuamente anche solo per cercare di mantenere il proprio status.
Questo dunque il pretesto narrativo: nonostante l'età e gli acciacchi e nonostante non sia proprio una passeggiata, Liu e Deng decidono che se i loro figli non possono raggiungerli, li raggiungeranno loro. Inizia un viaggio, e comincia la descrizione mai fredda ma al contrario sempre partecipata, di un paese, la Cina, pesantemente diviso. Diviso nello sviluppo, nel provare e nell'esternare le emozioni, nello stile di vita... nella cucina. In ciò che “nutre”, in senso anche lato, questa “famiglia”. Ecco dunque le lunghe sequenze della preparazione del pasto, ecco il numero magico (sei) delle portate: “perché porta fortuna”, ecco la violenza trattenuta o espressa nei dialoghi quanto nelle azioni.
E se è Viaggio a Tokyo di Ozu l’ispirazione principale per Jia, come sostiene nell'incontro lo stesso regista al termine della proiezione, è nel cinema di Takeshi Kitano, di Tsai-Ming Liang prima maniera o di Hou Sao Sien che troviamo altri rimandi in quest'opera di fatto così acerba e già così originalmente strutturata.
Il gesto semplice e minuto, una verità conquistata e non banalmente “ripetuta” davanti alla mdp, le interpretazioni di questi due anziani, per la prima volta sullo schermo, che colpiscono per la loro inarrivabile “naturalità”. È il cinema di Flaherty che sembra rivivere in Jia. Un miracolo che pensavamo avrebbe saputo replicare solo Nanook redivivo.