Il carrello in avanti che apre l'ultimo film di Nicole Garcia, scovando nel buio di una stanza i corpi dei protagonisti, rivela prima quello di Lisa (Stacy Martin) e poi, quando la focale lunga lo consente, vicino eppure stranamente distante, sfuggente, coperto da quello compagna, quello di Simon (Pierre Niney). Lei è aggrappata a lui, sembra voler anticipare Garcia con quest’immagine sfacciatamente pittorica, qualcuno direbbe alla Bacon; effettivamente lei è emotivamente dipendente da lui, è quello che confermano le scene successive, anche se non è dipendente dalle sostanze che lui spaccia.
Sì, perché si vede presto che Simon è un pusher con un giro di clienti radicato nella borghesia parigina, mentre Lisa frequenta una scuola alberghiera piuttosto severa. Simon, da parte sua, sembra avere come riferimento fisso solo Lisa: isolato, se non allontanato, dalla famiglia, così come evita di avere una casa propria, sfruttando di volta in volta appartamenti sfitti di amici, evita più che può complicazioni emotive con la clientela, rapporti che vadano troppo oltre la consegna della roba e il pagamento della stessa. L’apertura agli inviti di un cliente giovane, colto e borghese, che forse cerca qualcosa di più che la droga, si risolve in una serata disastrosa, a seguito della quale nulla potrà più essere come prima. Tanto meno Lisa e Simon potranno ricomporre il loro rapporto di codipendenza; nemmeno quando si ritrovano anni dopo, quando nella vita della giovane donna è entrato il facoltoso Léo Redler (Benoît Magimel).
Nel loro tentativo di trovare un equilibrio tra melodramma e noir – la categoria polar, come abbiamo imparato a conoscerla, sarebbe impropria innanzitutto per l’assenza, almeno fino alle ultime sequenze, della componente poliziesca – Nicole Garcia e il cosceneggiatore Jacques Fieschi sembrano voler attingere prevalentemente alle strutture del primo, conservando del secondo soprattutto la temperatura, con sullo sfondo l’ombra dell’ombra del thriller classico, anche se più che direttamente guardare a Hitchcock, in filigrana occhieggia Chabrol.
È difficile, quindi, rimproverare del tutto lo schematismo del sistema di coincidenze da melodramma appunto, che riporta costantemente i personaggi sulle reciproche traiettorie – Parigi, Oceano Indiano, Svizzera, sono i tre capitoli “geografici” in cui il film è scandito –, così come è difficile rimproverare il raffreddamento perenne dei sentimenti, l’assenza di slanci autenticamente folli e disperati. Questa storia di amori “più freddi della morte”, è integralmente affidata al lavoro dei tre attori protagonisti: se il Simon di Pierre Niney rischia di avere una bidimensionalità vagamente lombrosiana, spetta a Stacy Martin, che si rimodula da apprendista femme de chambre per hotel di lusso a femme fatale (qui ne fut si fatale), e soprattutto Benoît Magimel, maestosamente imbolsito, dare letteralmente corpo a questa storia di infelicità intrecciate.