À plein temps chiede di prendere una posizione precisa. Il dramma sociale e lavorativo vissuto dalla protagonista Julie (interpretata da una grandissima Laure Calamy) è lo specchio di un mondo che rischia di consumare lentamente, di risucchiare l’esistenza nel vortice incessante ed opprimente della vita metropolitana, trascinando piano piano lontano dalla famiglia e dagli affetti. Come collocarsi dunque in una realtà soffocante, che rischia di schiacciare ogni cosa a causa dei ritmi frenetici?
Con la sua opera seconda, il regista e sceneggiatore francese Éric Gravel realizza un ritratto intenso e particolarmente ansiogeno sulla stressante quotidianità di una madre single. Julie abita in campagna con i due figli e raggiunge ogni giorno Parigi per fare da addetta alle pulizie di un albergo di lusso. Insoddisfatta del suo ruolo, la donna aspira ad ottenere un lavoro nel campo economico, ma uno sciopero dei mezzi di trasporto – che si protrarrà per diversi giorni – renderà le sue giornate estremamente complicate.
À plein temps, riporta alla mente alla lontana Lola corre di Tom Tykwer, senza rivestirsi delle sue derive postmoderne ma, al contrario, ancorandosi strettamente al reale e alle sue problematiche. Julie corre da una parte all’altra della città, lavora in albergo, tenta di procurarsi la posizione dei suoi sogni, cerca disperatamente di trovare un passaggio per tornare dai figli. L’apertura del film, invece, rappresenta un momento di quiete, un’oasi di pace, la calma prima della tempesta: sentiamo i respiri di Julie mentre dorme, pochi istanti prima che la sveglia riattivi il suo ciclo di corse, impegni, difficoltà.
Nemmeno l’attesa del weekend e il suo conseguente arrivo portano conforto e sollievo per Julie. È infatti il compleanno di uno dei figli, e durante la settimana la donna deve comprare un regalo, organizzare la festa, gestire gli invitati, mentre lo sciopero continua, la pioggia batte incessante e tornare a casa la notte è un’impresa… Gravel non lascia alcun respiro allo spettatore, gli eventi si susseguono, lo spettatore è catapultato nel medesimo inferno di Julie. Il montaggio rapido sembra venire da un film su Jason Bourne, l’ansia per la sorte della protagonista è la stessa per la Victoria di Sebastian Schipper, solo che non ci sono né rapine o complotti, né fughe dalla polizia o sparatorie, ma solo una madre che cerca di rendere possibile l’impossibile e di mantenere saldo l’equilibrio familiare.
Di fatto, À plein temps è un racconto di resilienza materna, di lotta nei confronti della pressione sociale e lavorativa, di impegno nella risoluzione di quei problemi che rischiano di frenarci, indebolirci, spezzarci. Julie supera ogni difficoltà che le si presenta dinanzi perché, sebbene nel corso del film rischi a più riprese di crollare umanamente, si è posta un chiaro obiettivo: la preservazione di quanto è riuscita a costruire in passato e il non voler abbandonare la possibilità di realizzare i propri sogni. Una consapevolezza lucida, forte ed impenetrabile per un film che è un saggio sulla maternità e sul suo rapporto con la metropoli contemporanea.